Mi piace poter parlare di una cosa come “Esiste un legame tra videogiochi e teatro?” sapendo che tanto chiuderete questa pagina. Perché sì, inutile che mi ostini a trovare legami tra le due cose, addirittura il primo articolo scritto per questo “sitarello” è un monologo teatrale… Ridicolo. Per non parlare del primo speciale che scrissi per i nostri cugini ripuliti: ‘na roba pirandelliana sul teatro antico che non vi sto a dire. Chiaramente tutto questo per dirvi che, anche se ultimamente mi sono lasciato andare e non ho seguito più tanto bene questo mondo, il teatro io lo vivo e lo respiro, e quindi mi ronde un po’ il culo quando se ne parla in modo vago cercando di identificare il videogioco come rappresentazione teatrale.
Perché non ci vuole una scienza per capire che le due cose sono legate. Porca miseria, il cinema deriva dal teatro e, per quanto se ne dica, le forme cinematografiche nel videogioco ci sono, comprese le performance attoriali. Quindi il fatto che tutti puntino su: “mio dio la recitazione degli attori, ricorda Tommaso Salvini! (che non è parente del ruspaiolo, ma un grande attore della tradizione teatrale italiana)” oppure su “le maschere, quando giochiamo cambiamo la nostra personalità e diveniamo l’entità creata nel videogioco, perché come nella vita incontreremo sempre tante maschere e pochi volti”; è inevitabile. E che due palle anche.
Quest’ultima è una verità a metà, perché non è che siamo tutti bipolari porca matregna, e comunque senza di noi il gioco non funziona, quindi che cazzo mi rappresenta il concetto di avatar che vive al di là di noi e robe simili? Ma da quando? Ste cazzo di maschere usate perché sì, senza conoscere minimamente l’origine e la funzione della maschera a seconda della cultura. Raccogliamo le fila del discorso, calmiamoci, prendiamo un frappé o quello che volete, io prendo un frappé, e cerchiamo di fare ordine raccontandovi una storia assolutamente personale e decisamente non richiesta.
La colpa per l’idea di buttarmi su una tesi che ricercasse l’esistenza di un legame tra videogiochi e teatro, è totalmente da attribuire a Gameromancer. Perché? Vi starete chiedendo. È presto detto. Io sono pieno di idee, troppe probabilmente, e sono anche esageratamente ambizioso, ma, per qualche motivo sconosciuto all’umana specie, sono anche un depresso cronico. Gameromancer mi ha dato, però, la possibilità di scrivere come volessi e su un palcoscenico digitale (termine che ritroveremo dopo) di tutto rispetto. Spaccandomi anche dalle risate. E quindi, che mi sono detto da solo come un deficiente? Ma sì, proviamoci.
Kojima Dixit So che vi sembrerà assurdo, ma tutta sta manfrina sulle maschere mi è venuta in mente anche grazie ad un articolo che scrissi per parlare di un trailer di Death Stranding.
Sono partito quindi dal concetto che secondo me tutti confondono, o meglio, travisano (guardate che parolone da tesi eh eh): le maschere, appunto. Nel teatro il termine “maschera” è utilizzato nei modi più disparati. Persino i tipi che ti accompagnano al posto sono chiamati genericamente maschere, fate voi.
Vi assicuro che ne esistono di tutti i tipi: quelle per nascondere la propria identità, quelle per prendere in giro qualcuno o una divinità (perché sì, in italia abbiamo le bestemmie, ma gli dei sono suini potenti da millenni) e addirittura quelle utilizzate per far recitare meglio. Una vastissima schiera che un giorno approfondirò meglio perché è una figata. L’utilizzo su cui mi sono soffermato, però, è quello più vicino a quello che tutti usano: quello greco e in parte romano. Ora, non so se lo sapete, ma il termine “persona” viene dal latino e significava proprio “maschera teatrale”. Il che vi fa intuire il forte legame che c’era tra questo strumento e l’animo, in senso molto lato, degli esseri umani.
Ora, non vi sto qui ad ammorbare con cose tecniche, sappiate soltanto che le maschere teatrali permettevano agli antenati di entrare nel corpo dell’attore in scena e di utilizzare le sue membra per tutta la durata della rappresentazione. Questo perché le maschere teatrali greche coprivano interamente la testa dell’attore, e quindi sul palco avveniva una sorta di rito di scambio tra vivente e deceduto. Ritualità che ritroviamo negli abusatissimi avatar orientali.
Però qualcosa non andava in questo ragionamento. Sì, per carità, ti trasformi nel personaggio del gioco e via discorrendo. Ma non funziona con tutti i videogiochi, mentre la possessione teatrale avviene effettivamente per qualsiasi rappresentazione. E poi, Gameromancer mi ha insegnato a pensare fuori dagli schemi, e mettere al centro il videogiocatore in una sorta di Rinascimento della critica videoludica. Quindi, sti ammassi di codice che vivono così, tanto per farsi le seghe quando non ci giochiamo, e che poi si impossessano di noi, mi puzzavano troppo, ma davvero tanto. In più, con Tetris sta storia non funziona. Non giudico eh, ma se ti senti impersonato dal tetramino verticale/orizzontale o hai una grandissima autostima o sei un po’ un coglione.
No, no, doveva esserci altro. Ed ecco lì il colpo di genio: non erano i personaggi a impossessarsi di noi, ma noi a impossessarci dei personaggi. Quella cosa che io chiamo possessione videoludica per lustrarmi dove non batte il sole, non è altro che indossare una maschera diversa a seconda del videogioco, che ci permette di abitare il personaggio; che senza di noi non può esistere.
Comunque, questo risolve anche il dilemma di Tetris, perché fondamentalmente la maschera che indossiamo ci fa solamente entrare nel mondo digitale e ci permette di ordinare il comunismo simboleggiato da quei cosi colorati. Tutto il resto a cascata. Più il personaggio è caratterizzato, meno la maschera è potente, e meno la nostra personalità domina il personaggio. In alcuni casi, addirittura, neanche abitiamo il personaggio, perché è talmente bello che siamo costretti ad impossessarci di una delle sue voci, accompagnandolo nel viaggio (coff coff Senua coff coff).
Risolto anche il problema della bipolarità quindi, ma, anche se so che lo vorreste, la storia non finisce qua.
Potevo mai fermarmi lì con la mia ricerca? Ma quando mai. Esiste un legame tra videogiochi e teatro, e io devo trovarlo. In qualche modo, quindi, oltre che scomodare il gruppo Telegram della ribellione con sondaggi utili all’umana specie – sì, come no – decisi che non potevano essere solo le maschere il punto d’incontro tra videogiochi e teatro.
Avevo già preso roba dai greci, e quindi era arrivato il momento di scomodare il sommo Aristotele e utilizzarlo per qualcosa di più costruttivo delle frasi estrapolate e riutilizzate nei forum sconosciuti. Quest’uomo nel suo famosissimo libro “Poetica” ha descritto, in tutte le forme da lui conosciute, la tragedia antica.
Di cazzate ne ha dette tante eh, o meglio, all’epoca avevano un senso, solo che l’essere umano è coglione e ha preso per oro colato tutto ciò che ha trovato scritto in quel libro a metà (la seconda parte, dove parla della commedia, non è mai stata rinvenuta). Per questa scelta del cazzo, ci siamo ritrovati ad avere, durante il Rinascimento, spettacoli teatrali assolutamente non contestualizzati in nome del “prima era meglio!” e del “è vecchio quindi ha ragione!”. Grazie al cielo poi è arrivato Shakespeare.
Comunque, tra le tante cose Aristotele ha scritto una roba interessante: esistono sceneggiature teatrali pensate esclusivamente per lo spettacolo. Anche se la citazione non è esattamente quella, il senso è che qualcuno ai tempi scriveva qualcosa che non aveva alcun senso se letta da sola, ma aveva necessità di corpi vivi che la animassero sul palco. Cazzo! Se esiste un legame tra videogiochi e teatro è proprio su questo che devo puntare, sul videogiocatore che vive l’esperienza con il suo corpo e che quindi dà un senso a qualsiasi storia presente, passata e futura.
Ed è così che rubai spudoratamente il termine Narrativa Videoludica da uno studioso ben più importante di me, e la adattai ai mie parametri. Tre livelli di Narrativa Videoludica, più un livello zero aggiunto dai quei pazzi di Storm in a Teacup (trovate la rece qua in giro), che si susseguono per profondità e complessità.
Immaginatevi la voce di Pino Insegno e preparatevi:
Da qui ho poi chiuso il cerchio e trovato il termine in grado di racchiudere tutto: Azione Videoludica.
Il videogiocatore è colui che vive il videogioco, che lo respira, e proprio come un attore teatrale agisce, solo che lo fa su un palcoscenico digitale. Gli attori e gli spettatori a teatro vivono quell’esperienza in prima persona. Il videogioco ti fa essere sia spettatore che attore, allo stesso tempo. Per questo aborro termini come “interazione”, perché sono riduttivi. Non si tratta di un semplice dialogo con la macchina o con il codice. No, ti cambia la vita il videogioco.
Abbiamo mille mila testimonianze. Piangiamo, ridiamo, ci incazziamo. Come potrei mai associare a queste emozioni vere lo stesso termine che usciamo per le finestre di dialogo di Windows. Ok, con lui ci incazziamo, ma a parte le minchiate, non è la stessa cosa.
Il videogioco è agito, e su questo non ci sono cazzi. Quindi diffidate di chi vi propina robe come “il videogioco come rappresentazione teatrale” e poi vi parla solo di alcune tipologie di videogiochi, avatar, maschere che ti cambiano e diventi chissà quale mostro e per questo sei giustificato poi ad ammazzare gente per strada. Non è un ragionamento sensato. Videogiochi e videogiocatori sono un duo inscindibile, non categorizzabile e non giudicabile. Ognuno gioca al cazzo che vuole, alla difficoltà che vuole e tutti possono provare le stesse emozioni con differenti giochi. Proprio come succede a teatro. E sì, anche con Tetris.