Ho un fratello minore da praticamente da tutta la vita. Ho pochissimi ricordi di com’era prima, quando eravamo solo in tre in casa. Mi ricordo di essere stato uno di quei bambini che rompeva il cazzo ai suoi genitori affinché si infilassero i cazzi sotto un cavolo per farmi un fratellino. Ricordo di essermi pentito per ‘sta cosa un sacco di volte, anche se mai nessuna sul serio. Ricordo tutte le volte che ho preso castighi e mazzate per colpa sua. Quella volta che s’è perso nel villaggio vacanze perché doveva seguirmi a tutti i costi in sala giochi e quella in cui è uscito di casa senza bici e com’è come non è s’è spaccato mezza faccia nella discesa dietro casa.
Se al posto del folklore norreno e della Scandinavia ci metti l’entroterra veneziano e le pantegane siamo quasi lì. A differenza di Tove e Lars ho – abbiamo – ancora la mamma, ma il feeling rimane quello. Tuo fratello si caccia nei guai e sai che è una tua responsabilità salvarlo da sé stesso e dai pericoli che lo circondano. Mi piacerebbe dire che è perché t’han cresciuto così, soffiandoti dentro un senso di responsabilità non tuo un giorno di metà luglio senza un perché preciso. La verità è che questa è la stronzata dietro cui ti nascondi. Non vuoi ammettere nemmeno con te stesso che quella responsabilità te la sei presa perché la volevi prendere. L’idea che qualcuno o qualcosa dipenda un minimo da te è quello che fa girare il tuo mondo. Spiega tante cose. Fin troppe.
Spiega tra l’altro com’è che sei un videogiocatore addirittura da prima di diventare un fratello maggiore. Perché hai continuato ad esserlo anche quando in casa PC e videogiochi hanno smesso di entrare perché ce li portava il tuo vecchio e hai iniziato ad arrabattarti per farceli arrivare comunque. Anche qui in realtà dovresti utilizzare il plurale, perché è tutt’ora un affare a due. Com’è come non è, intanto dietro lo schermo la partita va avanti. Lars viene rapito da una storia uscita dal libro delle favole della buonanotte della mamma e Tove deve andare oltre sé stessa. Io, beh, devo andare oltre al fatto che giocare un’avventura grafica su home console sia sempre un’idea del cazzo a cui ciclicamente cedo non so nemmeno io bene perché.
A me degli spoiler non è mai fregato nulla, ma non c’è nessun motivo per raccontare cosa succede da qui in avanti. Come va a finire questa storia e com’è che si chiama Röki se apparentemente nessuno dei personaggi è stato battezzato così. Il feeling alla pollo di gomma con la carrucola in mezzo quando devi togliere un pugnale dalla spalla di un troll usando una corda e una trappola per orsi. Posso dirvi che ogni tanto ci sono dei puzzle che non sono esattamente riuscitissimi. Che Röki (il gioco) ti chiede di ricordarti cose successe ore prima e allora finisci a cercare la soluzione sull’Internet.
Che per quanto si sblocchino delle scorciatoie c’è un sacco di backtracking che quasi pare di essere finiti in un Metroidvania di quelli fessi che usano gli oggetti al posto delle abilità, volendo forzare pure qua dove non c’entra un cazzo il paragone con Dark Souls. Röki è un po’ come il rapporto con un fratello più piccolo che pensa di saperne di più. Deve farsi male, deve sbagliare anche se gli hai detto che sta sbagliando. È giusto così, perché lui sta anche in quegli errori che fa perché non è esattamente come te o come lo vorresti. E quindi sostanzialmente t’attacchi, vai avanti e rimetti insieme i pezzi.