Ci ostiniamo a trattare i videogiochi come qualcosa che ha bisogno del cinema. Parliamo di regia, vogliamo ore e ore di cutscene a sbatterci in faccia la narrativa (invece di andarcela a cercare, andarcela a scoprire). Sbagliamo. E lo facciamo coscientemente, perché è più facile spiegare i videogiochi “agli altri”, fantomatici adulti che ci perculano perché non perdono tempi coi giochini, loro.
Metalmark? Accordi è una figura controversa a dir poco. Ma siccome non è di interesse per questa SegaMentale parlarne, approfittiamo degli amici di Deeplay e cazzi loro.
Ve la faccio breve. Succede che la nostra utentessa Ilaria, sul Gruppone Telegram della Ribellione™, ci segnala un articolo a tema Death Stranding. Che anche mobbastaveramenteperò, non fosse che l’articolo viene direttamente dal sito della Treccani. E porta la firma di Marco Accordi Rickards, che piaccia o non piaccia e 5/5 ad Aliens: Colonial Marines o meno, è una figura pesante nel panorama della Game Critic italiana.
Stiamo parlando del Direttore Esecutivo del VIGAMUS, il Museo del Videogioco. È una collaborazione che (sulla carta) si traduce come “portale autorevole ospita l’opinione di un tizio autorevole“. E per noi diventa subito “che ficata, finalmente anche gli adulti si stanno rendendo conto che i videogiochi ESISTONO“. Non fosse che l’articolo ha un paio di passaggi agghiaccianti, e quindi i quattro gatti di Gameromancer si sentono in dovere di scendere in campo contro Treccani.
Il pezzo inizia con un tentativo di Kojima 101, spiegando cos’è Death Stranding e perché ne stiamo parlando ininterrottamente da un paio di anni. Approccio quasi d’obbligo, visto che l’articolo non è su una pubblicazione di settore e quindi probabilmente si rivolge sopratutto a chi il settore lo snobba. Proprio per questo, probabilmente, il fil rouge scelto è quello della cinematografia: il cinema ormai è del popolo e Kojima è un cazzo di cinefilo, è il classico common ground che probabilmente fa in modo che un babbano (nel senso di non videogiocatore) legga oltre le prime tre righe.
E finché l’approccio è questo, e si suggerisce che il cinema sia un medium culturalmente alto laddove il videogioco è ancora visto come una colossale perdita di tempo – poi che ti possa cambiare la vita vabbè, vale anche per la carbonara – poco da dire. È vero. Non c’è una correlazione tra le due cose, ma è vero. Poi però si prosegue così:
In Death Stranding tali ambizioni [cinematografiche] sono state ulteriormente esasperate, complice il coinvolgimento di innumerevoli attori provenienti dal mondo del cinema e delle serie TV.
Marco Accordi Rickards sul portale della Treccani
Luci guida Volevo scrivere un box per spiegarvi quella missione, ma no. Fatevi un favore e giocatevela, guardatevela su YouTube, fate qualcosa. Death Stranding vuole fare quello, non cinema.
Basta guardarsi i primi 40 minuti di gameplay del gioco per capire che è una cazzata. Il ragionamento di fondo, in pratica, è “ci sono tanti attori = Kojima vuole fare il regista“. Peccato che stiamo parlando di un titolo dove (per quella che, santoddio, è la prima volta nello storico del designer giapponese) il gameplay racconta, non raccorda. In Metal Gear Solid si giocava tra una cutscene e l’altra, innamorandosi tanto delle sezioni attive quanto di quelle passive. Anche in The Phantom Pain, per quanto la differenza fosse stata sfumata, eliminando lo stacco tra cutscene e sezione di gameplay, di fatto la narrazione si subiva, con l’unica eccezione della missione “Luci guida, anche nella morte“.
Death Stranding vuole riprendere proprio quel concept, mettendolo a servizio non solo della storia di Sam, ma di una vera e propria filosofia. Un messaggio sociale, attuale come mai Kojima era stato attuale – Sons of Liberty parlava di memetica prima che fosse mainstream. Death Stranding parla di legami, e lo fa sopratutto attraverso il gameplay. Se non ci credete, vi basta guardarlo.
Ma il passaggio più inquietante, quello che mi ha proprio gettato nello sconforto e fatto perdere definitivamente ogni speranza nella Game Critic, è anche peggio. Quello qui sopra alla fine vabbè, travisa semplicemente l’opera. Non è poi così grave, non sta scritto da nessuna parte che Death Stranding debba essere un prodotto per tutti (anzi, in questi giorni abbiamo avuto la prova provata che non lo è). Semplicemente, io ho una visione diversa di Death Stranding. Non dirò che lui non c’ha capito un cazzo, ma dal mio punto di vista non c’ha capito un cazzo. Probabilmente per lui di riflesso vale la stessa cosa. Quello che non posso però davvero accettare né giustificare è questo passaggio, che esprime una delle idee più retrograde e pericolose sui videogiochi che si possa costringere a visualizzare su un display: i videogiochi hanno bisogno del cinema per affermarsi.
[…] la tiepida reazione della critica nei confronti del gioco, soprattutto sul fronte dello storytelling, tarpò le ali alla possibilità per Beyond. Due anime di spiccare il volo nella cultura alta anche solo grazie alla partecipazione di Defoe, attore che ha lavorato nella sua carriera con registi del calibro di Lars von Trier.
Marco Accordi Rickards in combo con Davide Gabbia
Il passaggio successivo del pezzo poi ritratta, dicendo che in effetti non basta inserire dei volti noti in un videogioco per elevare il medium allo stesso livello del cinema. Ma ritratta nel modo sbagliato, definendo una scelta di questo tipo suicida per due motivi. L’incapacità di far emergere la personalità dell’attore in modo preponderante come invece avviene nel cinema.E l’incompetenza di un game designer che prova a dirigere i lavori senza essere un regista, come avviene invece nel cinema.
[…] la partecipazione di personaggi universalmente noti, come la Page e Jean Reno, provoca solo l’effetto di catalizzare tutta l’attenzione sulla celebrity, oltre a far concentrare media e critici esclusivamente sui loro ruoli, inevitabilmente sacrificati rispetto a film classici in cui possa emergere in maniera prorompente la loro personalità attoriale. L’errore più profondo, in questi casi, è stato probabilmente l’intenzione suicida da parte dei creatori del gioco di non indossare più le vesti di game designer, provando piuttosto a improvvisarsi registi.
Sempre Metalmark, sempre Treccani, sempre sconforto
Fermi un attimo.
Prendiamo fiato.
Al di là del fatto che no, non si tratta di scelte suicide a prescindere, tutto questo discorso poggia su un sotto-testo che vede il cinema come metro di paragone. Una stampella di cui i videogiochi hanno assolutamente bisogno, se vogliono riuscire ad affermarsi come cultura alta. Il Direttore del Museo del Videogioco sta sostanzialmente subordinando il Videogioco al Cinema, dicendo come il primo abbia un bisogno quasi disperato del secondo per farsi accettare. Si è arreso. Proprio nel periodo peggiore per arrendersi, il periodo in cui Hollywood sta iniziando a guardare con prepotenza ai videogiochi per farne film e qualche mese fa anche Keanu Reeves – il fidanzatino di Internet – ha detto esattamente il contrario.
I videogiochi non hanno bisogno del cinema, ma se non ci credono nemmeno gli addetti ai lavori, chi deve farlo?
Noi. Noi dobbiamo farlo.