Six Days in Fallujah è un palese, becero e pericoloso esempio di propaganda.
Che gli Stati uniti siano di parte quando si parla di loro è un fatto. Quando si parla delle loro forze armate poi si arriva a livelli che al confronto “pensavo fosse la nipote di Mubarak” è una citazione dal Vangelo secondo Marco. Esempio stronzo, su Twitch non si possono prendere per il culo i reduci di guerra. Ci sta, sono bastate le figure di merda internazionali per quello. Six Days in Fallujah si inserisce in questo contesto narrativo. O meglio, a parole vorrebbe essere un’opera documentale che ricrea “vere storie di Marine, soldati e civili iraqueni durante la battaglia più dura dal 1968”.
Andiamo con ordine. Della prima vita di Six Days in Fallujah come survival horror sui generis, pubblicato da Konami e diretto da un tizio di nome Juan Benito frega una sega. Konami se ne chiama fuori già dopo pochi mesi. È il 2009, e per qualche anno si susseguono le solite dichiarazioni di circostanza di questi casi. E stiamo cercando un pubblisher, e vedrai che esce, forse ci mette i soldi Sony, ma che cancellato, figurati. Com’è come non è arriviamo a quest’anno, 2021. Col gioco che nel frattempo è diventato uno sparatutto in prima persona improntato al realismo che puzza peggio che mai.
Siamo al di là delle solite paraculaggini per cui ma figurati, Six Days in Fallujah mica è un gioco politico. Vi mettiamo nei panni di un soldato e i soldati mica possono discutere gli ordini, subiscono le decisioni politiche di altri. Tuttappò, niente pipponi, niente sermoni. Anche niente fosforo bianco, perché non c’è bisogno che i giocatori siano messi in condizioni di perpetrare le atrocità decise da qualche politicante che il marine che impersoniamo dovrebbe subire. E sì, se hai riletto la frase pensando a qualche supercazzola c’hai tutte le ragioni del mondo. Peccato che stia citando gli sviluppatori.
La supercazzola più grossa, ad ogni modo, rimane il procedurale. Non solo le dichiarazioni di chi ci sta lavorando, ma anche le ambientazioni di Six Days in Fallujah vengono generate in modo casuale. Tutto fiero, il sito web ufficiale di questa porcata ostenta la cosa dicendo che “come in un vero combattimento, non sai mai cosa ti aspetta dietro una porta”. Probabilmente t’aspetta una famiglia di islamici che non ti sei preso manco la sbatta di modellare uno alla volta in Unreal Engine, bambini inclusi, ma oh.
Viene fuori che se parli male di Six Days in Fallujah rischi di perdere il visto che ti permette di vivere e lavorare negli Stati Uniti. Alanah Pearce, che è australiana, preferisce in ogni caso non farlo. Però quantomeno scansandosi retwitta Rami Ismail, che contro il gioco sta portando avanti una campagna militante e attivissima. Arrivando a chiamare in causa Filippo Spencer che – da buon pacifistone della Console War – twitta contro l’odio verso gli asiatici su Xbox e poi viene tirato in mezzo alla situa.
L’ultima puntata, per il momento, arriva con le dichiarazioni del Council on American-Islamic Relations. A palle di fuori – le vagine sono infibulate come da tradizione – l’organizzazione per i diritti degli islamici negli Stati Uniti chiama in causa Sony, Microsoft e Valve. A loro dire il gioco va boicottato, non deve arrivare sui canali ufficiali di nessuno. Ce l’ha fatta la Cina con Devotion, che loro sono più stronzi dei mangia riso?
Vale lo stesso discorso fatto per Hogwarts Legacy. Dobbiamo iniziare ad accettare che i videogiochi sono politica e come tali possono essere analizzati. Quando si guarda lo schifo in faccia, e Six Days in Fallujah è assolutamente una metastasi in un industria che sta cercando di esser vista anche come cultura, non bisogna scappare. No, se è vero che i videogiochi sono cultura e possono entrare nelle scuole per insegnare qualcosa, bisogna fare in modo che succeda anche a Six Days in Fallujah.
Come esempio di come non si racconta una realtà storica, di come sia facile mettere a tacere la coscienza perché oh, abbiamo intervistato 100 Marine e nessuno di questi ha parlato di fosforo bianco. Tra questi 100 marine ce n’è uno che t’ha serenamente raccontato di come pensava a suo figlio mentre apriva il fuoco su altri bambini della sua età, la cui unica colpa era non poter mangiare una carbonara. Manco quella con la pancetta.
Six Days in Fallujah è una prova. Dobbiamo dimostrare di avere abbastanza palle da credere davvero che i videogiochi siano arte e cultura, e trattarli come tali. Perché il giornalismo di settore, qua in Italia, stocazzo che lo farà.