Se tuo figlio gioca troppo alla PlayStation o in generale ai videogiochi, magari chiedi aiuto su @JoinTheRebellion. Un po’ di consigli te li spariamo nel podcast qui sopra (o a sinistra, dipende dal display) o se non c’hai cazzi qui di seguito.
Da quando mio figlio ha scoperto Fornite non è più lui. È nervoso, ha degli scatti d’ira, alza la voce… Non so più cosa fare, a parte lamentarmi qui su Facebook dove lui non c’è perché dai, Facebook è una cosa da Gen-X. L’unica soluzione è togliergli la PlayStation, non c’è altro da fare. Quando mai il proibizionismo ha fallito? Figurati se davanti ad un mio divieto poi inizia a giocarci sottobanco, andando a casa di qualche amico e senza la supervisione di qualcuno consapevole. Ok lo facevo pure io ai miei tempi, quante volte ho marinato la scuola per andare a saltare i fossi con la cumpa di amici. Ma è diverso. È diverso, no?
Stai scegliendo la strada facile. Fortnite non fa per me, non lo capisco, fa schifo. Magari per te vale in generale per tutti i videogiochi, per tutta la PlayStation. Non sei un videogiocatore, non conosci il medium e quindi ti fa paura. Solo che non te lo puoi permettere, molto semplicemente. Perché ormai videogiochi sono tipo la cosa più grossa che abbia mai prodotto l’uomo, così grossa da diventare armi in un conflitto pluri-decennale come quello tra India e Cina. La risposta non è togliere i videogiochi a tuo figlio. È farlo diventare un videogiocatore consapevole.
Perché la banale, spaventosa verità è che i videogiochi fanno male. Possono far del male. Sono arte, e l’arte è per definizione una lama a doppio taglio. Se non sei d’accordo beh, vuol dire che non li ritieni davvero tale. Il tuo ruolo su questa Terra, in questa vita, è preparare tuo figlio ad affrontare il resto del mondo. Togliere l’eroina ad un drogato non serve a un cazzo, se prima non hai fatto in modo di fargli capire che sta cadendo nel baratro. È lo stesso ragionamento.
È dura. Tutta in salita. Esattamente come fare il genitore. A. c’è riuscito, c’è riuscito alla grande. Suo figlio c’era finito sotto con Fortnite, proprio come il tuo. Anche lui mi ha raccontato le stesse cose, gli stessi atteggiamenti. Lui però s’è dato da fare, e adesso il gioco preferito di suo figlio è A Short Hike. È un percorso che inizia parlando, cercando di capire il perché dietro certi comportamenti. Perché è solo capendo il perché che poi si possono disinnescare. Alza la voce perché alzano la voce gli altri giocatori, la alzano gli streamer che guarda su Twitch. Nel loro caso è spettacolo, sono urla che vanno contestualizzate. Se non lo fai, sei solo uno strillatore seriale come tanti.
Vuole spendere i soldi in skin perché deve pavoneggiarsi con gli amici. È la stessa cosa che facevamo anche noi alla sua età, quando rompevamo i coglioni per avere le Nike Silver a tutti i costi. Con una differenza. Una differenza enorme. Lo fa con denaro dematerializzato. È già difficile, specie a quell’età, capire quanto valgono i soldi. Se poi sono soldi virtuali usati per comprare beni virtuali è ancora più un macello. Per quanto possibile devi provare a tradurre quel valore in qualcosa di pratico, che possa capire. Tipo che se spendi 20€ di microtransazioni al mese per due anni, con la stessa cifra ti ci compri PlayStation 5. Che magari nel mentre è pure tornata nei negozi.
Un mondo dove convivono gatekeeper del cazzo che si bullano del loro essere vecchi – o parrucconi, se stanno dall’altra parte della barricata – e persone che si emozionano per un’avventura grafica che parla di perdita. Gente che si ipoteca la casa pur di poter provare a fare il suo videogioco, altra gente che sta nel business solo per soldi. Ci sono i Chris Avellone e gli Isao Okawa, che in punto di morte regalano i miliardi alla zaibatsu per salvarle la vita. Gli Yoko Taro e i Suda51, quelli che non capisci se sono tossici o fanno empowerment, se sono dei geni o dei truffatori.