La stampa ha anche rotto otto noni di cazzo,
ad inventare termini inutili

Storia lunga fatta breve (giusto per citare a cazzo Gualty Cannarsi e rimanere in tema), su EveryEye esce una recensione di tale Stela e viene etichettato come Indielike. Così, pronti via, subito nel titolo. Reprimendo l’istinto da fondamentalista dei giochini che mi assale davanti a termini del genere (del tipo che Soulslike è una supercazzola oscena senza possibilità di appello o redenzione), mi leggo l’articolo. Sperando di capire che cazzo vuol dire Indielike. Va bene tutto, ma mica scriveranno un articolo senza spiegarlo… No, non lo spiegano. Sarà una di quelle etichette da radical chic del videoludo che va di moda in quei salottini dove noi di Gameromancer siamo guardati con sospetto, eterni Caparezza ad una cena di MC del DAMS.

Nemmeno Google sa che cazzo vuol dire Indielike.
Allora perchè cazzo lo scrivi?

Se c’è una cosa che mi fa letteralmente strippare, della Game Critic di oggi, è questa. E ok, la perenne mercificazione dei videogiochi, trattati come prodotti invece che come opere. E l’uso invasivo di banner pubblicitari, che è concausa della transizione dell’audience dalla parola scritta verso i video e gli streaming. Ok, riformulo. Della Game Critic di oggi non mi va bene sostanzialmente nulla. Ma la tendenza ad inventare generi e terminologia senza manco degnarsi di spiegarla (o contestualizzarla), è il Ground Zero della merda. Inizi per inventare il termine Soulslike e finisci che Nioh non sai come classificarlo, se ci rientra o no. Perché ha diversi punti in comune con le produzioni From Software (è così difficile, scrivere “giochini di From Software” invece di Soulsborne? Chiedo), ma da queste si prende anche non poche licenze.

Il concetto dietro Indielike non è così sottile e fumoso come quello di Soulslike. Forse l’autore della recensione (che è il buon Claudio Cugliandro del fu Deeplay, che abbiamo pure avuto ospite in podcast, giusto per chiarire che quando dobbiamo dissare lo si fa senza guardare in faccia nessuno) proprio per questo lo dava per scontato.

Indielike vuol dire più o meno alla lettera, tipo un indie.

Posto che non voglio credere che si alluda al budget, visto che non è scritto da nessuna parte che un indie si faccia con due spiccioli (vedere alle latitudini di Hellblade) e che un termine per indicare una produzione a basso budget esiste già, voglio credere che il concetto strizzi l’occhio all’autorialità della produzione. Concetto che mi è molto caro e che negli anni mi ha portato a difendere anche prodotti che sulla strada verso lo scaffale hanno incespicato. Perché se metti su The Last Guardian lo devi fare col preciso intento di ascoltare quello che Fumito Ueda ha da dire. A prescindere dal mal di DOOM della telecamera e dal frame-rate da Photo Mode.

Indielike in pratica vuol dire “videogioco d’autore”. E fin qui nulla di male, se non che è una definizione faziosa e anche abbastanza obsoleta. Dicendo Indielike si parte implicitamente dal presupposto che di solito il videogioco d’autore è appannaggio dell’indie. Tutto il resto del mercato, quello che segue le regole convenzionali e passa da pubblisher e distributori, non osa. E quando osa, appunto, è tipo un indie. Quindi Fumito Ueda, che con ICO ha anticipato quella tendenza d’autore che poi si, è innegabile che il mercato indie abbia sdoganato, è Indielike. Hideo Kojima? Pure. Perché Death Stranding è puro videogioco d’autore e non ho intenzione di tornare sull’argomento per l’ennesima volta. Da quell’8 novembre 2019 non è passato un singolo giorno senza che ne nominassi il nome invano.

trailer di lancio di Death Stranding videogiochi filosofia
#JoinTheRebellion Death Stranding qua è stato coperto dal basso.

Vedo l’eco dell’ultimo Kojima in diversi aspetti della mia vita, come in un’epoca A.D (Avanti Death Stranding, piegandomi al giochino del coniare termini sull’onda del celodurismo) ho visto in Sam l’eco di Ueda. È videogioco d’autore anche Horizon Zero Dawn, perché è impossibile trovare qualcosa che parli delle stesse tematiche. E, sorpresa sorpresa, lo è pure Final Fantasy 7 – l’originale, quantomeno – perché come dicevo assieme al Kompagno CyberMantis usa un sacco di volte il linguaggio dei videogiochi per raccontare. Anche solo per farti capire quanto cazzuto fosse Sephiroth.

C’è un sacco di videogioco d’autore anche nel mainstream, è quindi un’etichetta come Indielike che cazzo di senso ha? È un concetto vecchio, che si rifà alla formula dell’Indie che ci ha salvati tutti. Che evoca anche nei videogiochi una guerra ideologica tra chi ha i soldi e chi ha le idee, non ammettendo che le due cose possono collimare e, per fortuna, spesso collimano.

Dire IndieLike è dire qualcosa di vecchio, come che i videogiochi una volta erano più difficili o che erano meno buggati

È avere una visione antidiluviana del mercato. Non più veritiera, se mai lo è stata. Perchè è facile ricordarsi di Ninja Theory per quella meraviglia che è Hellblade, ma stiamo parlando di uno studio che ha avuto le palle di fare le stesse cose anche con un’IP pesante come Devil May Cry. Indielike è guardare a Resident Evil VII e vederci un rip-off di Outlast, non la determinazione di una Capcom che non vuole diventare la prossima Konami. È sputare veleno su un sacco di addetti ai lavori per darsi un tono.

È radical chic applicato al videoludo…