Quella di Silent Hill è la storia di un gruppo di sviluppatori sfigati messi sotto contratto da Konami. Questo era Team Silent, né più né meno. Immaginatevi un gruppetto composto da persone che avevano toppato ogni singolo progetto a cui avevano preso parte. E che si gira i pollici negli uffici di Konami in attesa della scadenza del contratto. Akira Yamaoka passava il tempo giocando a freccette, mentre tutti gli altri guardavano Hiroyuki Owaku che faceva la bottle flip challenge applaudendolo ad ogni successo.
Un bel giorno un manager in pausa caffè li vede grattarsi la pancia davanti alla scrivania. E si rende conto che l’azienda stava pagando della gente per non fare nulla. Così li raduna e li rinchiude dentro un ufficio dicendogli di mettersi al lavoro su un gioco che avesse un’atmosfera hollywoodiana da vedere agli yankee. Quei bastardi di Capcom avevano fatto i soldi veri con un gioco sugli zombie, Konami non poteva mica stare a guardare.
La storia di Team Silent e di Silent Hill comincia così. Passa il tempo, ma nessuno sembra ricordarsi di aver rinchiuso quei poveracci nell’ala est degli uffici, tantomeno di avergli affidato la creazione di un gioco. La situazione è così paradossale che quando Masahiro Ito prova ad interfacciarsi con i suoi superiori questi lo scambiano per uno stagista e lo mandano a fare fotocopie in corridoio. Insomma, a Konami non fregava nulla di Team Silent e del gioco che dovevano sviluppare, quindi Keiichiro Toyama prende in mano le redini del progetto e decide che, visto che non ha nulla da perdere, vuole sviluppare un gioco horror secondo le sue idee.
Viene fuori che quei falliti non sono dei falliti qualunque. Anzi, sembra proprio che abbiano un sacco di interessi in comune, a partire dai film horror fino ad arrivare alla letteratura europea ed americana. Ma, soprattutto, gli piacciono davvero i videogiochi. Piano piano quegli interessi condivisi diventano un sogno in comune, e quel sogno si chiamava Silent Hill. Team Silent voleva rispondere a quei tamarri di Capcom e ai loro soldati palestrati ammazza-zombie, e lo fece con un videogioco horror psicologico che ha cambiato per sempre il paradigma del genere. Silent Hill era la risposta a Resident Evil e a Konami stessa che non aveva creduto in loro e stava per dargli il benservito.
Silent Hill sbarca all’E3 del 1998, e da lì è storia. La presentazione è un successo. Ed ha così tanto effetto sul pubblico che Konami si vide costretta a mettere a disposizione un dispenser di mutande di ricambio accanto alle postazioni di prova del gioco.*
*: Potrebbe non essere successo.
Succede che quel gruppetto di scemi torna in Giappone vittorioso, così Konami decide di dargli carta bianca per la creazione di un seguito. Silent Hill 2 è un passo enorme per Team Silent. La sfida era ancora più impegnativa: il primo capitolo li aveva resi noti agli occhi della Zaibatsu, ora dovevano riconfermarsi e dimostrare di non aver avuto solo fortuna.
Silent Hill 2 alza l’asticella. Da omaggio all’horror psicologico si trasforma in un’opera personale, intima e terribilmente toccante che racconta il lutto come nessuno aveva saputo fare fino a quel momento con un videogioco. La qualità di Silent Hill 2 è spaventosa. È un videogioco così potente che a distanza di anni incontra uno studente fuorisede dall’altra parte del mondo e lo aiuta a sconfiggere la depressione che lo sta ammazzando. A proposito: grazie, Team Silent.
Il dramma è che Konami si accorge definitivamente della qualità di Silent Hill e del Team, e decide di intromettersi nello sviluppo per aiutare gli sviluppatori a creare un prodotto che possa massimizzare vendite e guadagni. Silent Hill 3, per quanto eccellente, è l’inizio della fine per Team Silent, e Silent Hill 4: The Room segna la fine del rapporto tra la IP e i suoi cretori. Ad oggi Silent Hill non è che un’ombra di quel sogno che ha fatto la storia del videogioco, prima trasformato in una vacca da mungere a suon di pachislot e poi abbandonato a se stesso in attesa che qualcuno lo riporti in auge.