SegheMentali I videogiochi sono tipo la Sindrome di Stoccolma

Giocando ai videogiochi, ci innamoriamo di roba che ci rapisce per ore: è la Sindrome di Stoccolma, e l'idea che loro continueranno dopo di noi è troppo

Giocando ai videogiochi, ci innamoriamo di roba che ci rapisce per ore

I videogiochi sono tipo la Sindrome di Stoccolma. Ci avete mai pensato, vi è mai capitato? Guardate la vostra libreria, l’elenco infinito di backlog di giochi che tutti vi hanno detto bellissimi e voi avete comprato magari approfittando di qualche sconto o di qualche Humble Bundle. Di quelle robe che se aveste risparmiato quei soldi ora sareste alla pari con il patron di Amazon, altro che cazzi.
E invece dovete lavorare per mantenere voi e il vostro hobby. Ma questa è un’altra storia.

Guardare in adorazione i videogiochi accumulati per ore, tipo la Sindrome di Stoccolma

Siete lì, dicevo, e guardate il vostro backlog. 700 titoli solo su Steam. Poi aprite l’elenco delle uscite del mese e ci sono tre giochi per un totale di 300 ore circa, ma voi siete adulti per bene (ahah) e lavorate, quindi forse se non dormite da qui al 2025 ce la potete anche fare. Per tre giochi. E non avete nemmeno guardato quelle del mese prossimo. O al fatto che tra 11 mesi esce Playstation 5 e voi dovete ancora comprare Nintendo Switch.

Arriva lì, il male di vivere. Che è strano, perché con i film o con i libri non mi capita. Sarà che i vecchi classici sono usciti tutti (o non sarebbero classici) e ultimamente è tutto un rimestare sempre le stesse due idee in croce. Dopo Tolkien nessuno ha più detto niente e l’evidenza è più dolorosa che mai. Con i videogiochi non è così. Ogni anno, qualcosa che mi tocca il cuore esce. E non è una cartuccia NES ripescata al negozio dell’usato, ma 48GB di gioco con patch per ultra 4K 120fps – è roba NUOVA. Alla faccia della nostalgia.

È la Sindrome di Stoccolma: lasciarsi sempre rapire dai prossimi videogiochi in uscita

Quindi arriva il male di vivere. Quella consapevolezza inevitabile che passa per le cinque fasi solo che la quinta non è l’accettazione ma la rabbia, l’incazzo più totale. I videogiochi sono nati dopo di noi, ma continueranno dopo di noi. Le IP che amiamo non moriranno con noi.

Non me ne fotte un cazzo di paradiso o inferno, non è quello che temo.

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Da morto, mi perderò l’ultimo Kojima. Peggio che perdersi nell’Ultimo Rembrandt.

Il vero problema è che, da morto, mi perderò l’ultimissimo capitolo di Persona. Il vero problema è l’idea che dopo la mia morte continueranno a uscire robe a cui vorrei giocare. È la Sindrome di Stoccolma dei videogiochi.

E mi fa incazzare.

Questo articolo è frutto dell'iniziativa Crowdsourcing sovversivo di Gameromancer. Che è 'sta cosa?