SegheMentali Il problema non è la definizione di indie, ma quella di poser

Udite udite, il gotha ha decretato che Stray non è un videogioco indie. Facce di cazzo.

Per il ciclo “c’avete la faccia come il culo”…

Udite udite, il gotha ha decretato che Stray non è un videogioco indie. Ironico. Abbiamo dedicato tipo un paio di puntate del podcast solo quest’anno alla definizione di “indie” (e al perché serva al di là del marketing). Lo scorso luglio mi sono beccato personalmente una rata e mezza di insulti per aver detto ‘sta cosa. Ma hey, adesso l’Alto Concilio della Critica Italiana ha deciso che Stray non è indie per cui tutto a posto. Poco male se poi parallelamente quest’estate il Concilio flexava l’aver portato sulla stampa generalista un gioco indie™ e di nicchia® come Neon White (che oltre a essere pubblicato da Annapurna ha tipo 68 recensioni su OpenCritic. Vesper ne ha tipo 14. Nicchia questo gran paio di coglioni). Basta, Devolver rauss, da oggi sono troppo pop.

Quindi improvvisamente Stray non è indie ed è importantissimo specificarlo, oh. Sennò come ce lo diamo un tono in questa critica sempre più incolore?

Indiewashing? È tipo il greenwashing, ma invece di far finta di essere ecologista fai i giochini low budget. Indovina chi ne ha parlato in podcast? (hint: non è Indie Comune)

Sta succedendo che le grandi aziende presidiano l’indie. Si sono accorte che se metti un po’ di grano in cose come Kena Bridge of Spirit o Sifu magari si portano a casa la statuetta “Best Indie” dal Geoffoni Festival. E ai fini della tua strategia di mercato che dipende dal fatto che la gente si compri le tue console perché ci trova i giochini migliori ti sei validato più o meno come quando il premio lo vincono i God of War o i The Last of Us, solo che non hai speso 100 milioni di dollari per lo sviluppo. E la concorrenza magari è pure meno agguerrita. L’anno in cui Miyazaki fa cose rischi di portarti a casa un gran cazzo pure se sulle copertine hai aerografato il nome di Hideo Kojima, se concorri al GOTY vero. Quello dei povery è un’altra cosa, quindi daje con l’indiewashing.

Ora, come stiamo rispondendo? Nel modo più idiota possibile, ovviamente. Dovremmo riappropriarci del termine indie, invece di lasciare che chi ha i soldi lo sfrutti come vetrina per la sua argenteria togliendo spazio a chi ne avrebbe davvero bisogno. E invece iniziamo a decidere arbitrariamente requisiti del cazzo per stabilire chi ne ha davvero bisogno.

Il segreto di Pulcinella di questo circo che chiamiamo “giornalismo videoludico” è che di giornalismo non c’è nulla. Non possiamo sapere quanto di Devolver e quanto invece di Daniel Mullins ci sia in Inscryption, che nasceva come Sacrifices Must Be Done durante la Ludum Dare 43. Ci sono NDA che Mullins ha dovuto firmare per cui non può parlare di certe cose. Executive con cui è impossibile mettersi in contatto. Anche riuscendo ad aggirare l’uno o l’altro ostacolo, ci toccherebbe fidarci a scatola chiusa di quanto detto senza la possibilità di visionare documenti e prototipi e comunicazioni.

Siamo completamente in balia delle aziende

Aridaje È sempre quel cazzo di problema delle recensioni. Con, le recensioni. Quello che non ci interessa risolvere perché in fondo va bene così.

Non possiamo nemmeno sapere quanto cazzo ha venduto un giochino. Possiamo farci un’idea delle revenue alzate da Steam, ma per il resto anche lì, o ti fidi di quanto ti viene detto – sempre se si può dire – o ti attacchi. In apertura ho utilizzato OpenCritic come metro per stabilire quanto un videogioco sia chiacchierato a livello critico. È una gigantesca approssimazione. Prima cosa perché definisce le recensioni a scadenza embargo “critica”. Poi perché non è automatico che tante recensioni equivalgano a tanti soldi. Specie visto che spesso e volentieri non sappiamo nemmeno quanto è costato un videogioco e quante copie deve vendere per andare in pareggio.

Non siamo per nulla nella posizione di poter decretare arbitrariamente chi ha bisogno di spazio e chi no. Ci mancano i dati alla base dei processi che qualcunə sta già mettendo in atto, pontificando che questo e quel gioco sono troppo pop perché “ne ha parlato chiunque” (dove poi chiunque sono due blog di scappati di casa e una manciata di newsletter). E a dirla tutta non dovrebbe nemmeno essere quello il driver dietro la critica. È vero che non ci pagano e quindi siamo no-profit, ma a differenza di Sony quando manda i salami non facciamo washing beneficenza. O meglio, non dovremmo, a meno che l’esercizio critico non serve appunto solo per darsi un tono, per potersi sentire fichз a occuparsi solo di roba misconosciuta diventando automanticamente intendietori.

Il compito di una buona critica dovrebbe essere parlare dei videogiochi che meritano. A prescindere dal budget alle loro spalle o dell’esposizione mediatica che hanno ricevuto. Di più, il compito di una buona critica dovrebbe essere quello di parlare solo di quei videogiochi su cui c’è qualcosa di significativo da dire. Di lasciar perdere le recensioni day-one procedurali che assomigliano tanto a comunicati stampa col voto e di prendersi invece il proprio tempo per fare le cose. Ma è un discorso che prescinde dai publisher.

Abituato a giornalisti col complesso di Dio, è bizzarro vederli in cosplay di San Francesco d'Assisi. Quasi un downgrade

Cercare di essere virtuosi a tutti i costi – agli occhi di chi, poi, dellз colleghз che guardiamo gelosi ogni volta che pubblicano qualcosa? – fa male a quelli che dovrebbero essere i veri destinatari dei contenuti. A chi legge/ascolta i podcast/guarda i videini stupidini. Non è così che faremo Game Culture. Così al massimo spostiamo il focus dalla definizione di indie a quella di poser.

Nella speranza di poter infamare meglio
quei dirimpettai che suggeriamo sempre di ignorare.