Il mese scorso, un interrogativo si è inserito di prepotenza nei discorsi che ruotano intorno alla critica videoludica, complice un famigerato quanto discutibile editoriale uscito sulle pagine virtuali di The Games Machine. Un pezzo che, secondo me, ha l’unico vanto di aver creato terreno fertile per una discussione articolata a partire dal suo assunto di base, nonostante fosse un’opinione quantomeno poco condivisibile. Non sto ad ammorbarvi con ulteriori dettagli dei retroscena, chi legge con ogni probabilità ha ben chiaro il contesto e il fatto che questo articolo nasca in risposta al palesarsi di una necessità.
Ho pensato molto, nei giorni precedenti a questo articolo, a che cosa volevo dire. La prima e più importante riflessione che ho fatto si è concentrata, naturalmente, sul tema del privilegio. Se sei nella condizione di poter chiedere al medium che tanto ami, e alla stessa community che lo abita e che condivide con te la passione per innumerevoli immaginari fatti di pixel, di non concentrare il proprio focus su qualsiasi aspetto non possa propriamente definirsi “ludico”, ci sono buone probabilità che tu sia unə fottutə privilegiatə. E in quanto persona meno privilegiata di chi ha scritto dell’inutilità di elucubrare sui nostri amati “viggì”, beh, mi sono sentitə intitolatə a fare da contraltare, anche perché era un bisogno sentito, nella mia cazzo di splendida bolla.
Perché sì, è un cazzo di privilegio poter giocare senza dover per forza riflettere su tutto quello che si gioca. Dev’essere bello poter attaccare la spina della console e contemporaneamente staccare completamente quella del proprio cervello; da quando hanno inventato le prese multiple, ad ogni modo, francamente non ne vedo la necessità. Unə può tranquillamente continuare a farlo, sia ben chiaro, e fermarsi così al primo livello di lettura di un’opera che, comunque, molto probabilmente ne ha più di uno; però non vedo perché dovrei farlo io, se non forse per evitare di sentirmi dire che “non è vita”. Soprattutto non vedo perché un approccio del genere dovrebbe squalificare o anche solo essere migliore di quello di chi si avvicina al giochino con l’idea di ammazzarsi il cervello di seghe mentali.
Sull’argomento, comunque, sono state dette robe molto più interessanti di quelle che direi io, e sono state dette da persone molto più intitolate del sottoscritto, e che hanno anche centrato altri punti importanti della discussione come l’esistenza di un bias dovuto alle bolle social (sì, sempre lì andiamo a parare, repetita iuvant) e la tossicità di un modo di fare critica o analisi videoludica che scredita a priori metodi differenti (sì, anche su questo c’ho ancora il dente avvelenato, palese amə). Ciò che mi preme fare è allora un ragionamento diverso, basato sul mio modo di vivere l’amore per il gaming, ma che certo non è dissimile da quello che fa la maggior parte dei consumatori di giochini. Consumatori che, tra l’altro, hanno smesso di essere una minoranza circa un mercato smartphone fa.
In continua lotta con le mie altre passioni per ritagliarsi uno spazio nel tempo che mi rimane, tolto il lavoro e i rapporti sociali primari. Si batte a denti stretti con il cinema, la letteratura, il fumetto, la musica, l’animazione…tutti degni avversari, nonché cose per le quali, se potessi scegliere la mia battaglia, non sarebbe la settimana lavorativa di quattro giorni (nel mio settore decisamente una chimera irrealizzabile) bensì la giornata di trentasei ore. Spesso non ce ne rendiamo davvero conto, ma il nostro tempo libero, nella società attuale, è il tesoro più prezioso di cui disponiamo, l’oro tenuto nascosto dal drago del capitalismo. O da chi nasconde pezzi discutibili dietro “sensazionali” titoli clickbait, btw.
Se il tempo utile che abbiamo a disposizione diventa valuta di scambio nell’economia del nostro quotidiano, ecco che questo assume maggiore valore in relazione al modo in cui lo impegniamo. Il che mi porta al focus di questo articolo: videogiocare per me è necessario, ma se non mi facesse pensare, probabilmente non lo farei. A prescindere dal media di riferimento, il riflettere, il ragionare, il fare filosofia (anche spiccia eh) è un elemento centrale nella mia esperienza di fruizione di un contenuto mediale.
Anche se credo che buona parte della community con cui interagisco sia allineata a questa forma mentis. Perché sì, abbiamo provato tutti a fare quel videogioco story-driven che giochi per la trama magistralmente sviluppata e per i personaggi tridimensionali, senza che necessariamente ti restino attaccati importanti temi sociali, ecologici e sticazzi. Potrei citare Zelda: Breath of the Wild, rischiando il linciaggio per mano degli estimatori del franchise e di qualsiasi persona sana di mente che ne abbia riconosciuto la grande metafora ambientale. Ma anche un qualsiasi Final Fantasy che non sia il VI, il VII, l’ VIII, il IX, il X, o il XII…ok no, forse l’esempio della saga di Square Enix non è tra i più idonei per me, che mi identifico come fanboy. Ad ogni modo, il succo del discorso è sempre lo stesso per qualsiasi titolo in cui la narrazione rivesta un ruolo di primo piano: ti godi l’avventura e ti compiaci di aver passato del tempo in buona compagnia, senza necessariamente stare a pontificare sul vuoto.
Se poi arrivano le nostre amate seghe mentali, beh, quello è tutto grasso che cola, dal mio punto di vista
Alla stessa maniera, abbiamo passato tutti serate incredibili con gli amici a giocare a qualsiasi party game targato Nintendo (Mario Kart, Super Smash Bros o Splatoon che sia) o ad improvvisare discutibili esibizioni con Just Dance che tiravano fuori la nostra Britannia Lance™ interiore.
Ma abbiamo anche provato, tuttə noi videogiocatorə, a sentire vibrare determinate corde della nostra anima in risonanza con le nostre esperienze di vita vissuta, e grazie anche a questi stramaledetti giochini. C’è chi come me ha elaborato meglio un lutto anche grazie a Gris, o si è rivisto in un gioco piccolo come Lydia che tratta il tema dell’alcolismo in famiglia…c’è chi come me ha empatizzato con This War of Mine perché si è visto vicino, nella vita reale, a persone scappate dall’Ucraina e chi, sempre come me, ancora non ha toccato Omori perché sa che potrebbero riecheggiare nella sua testa le urla di mostri che riteneva sconfitti.
Tutte valide motivazioni per giocarle, 'ste cazzo di opere.
La sensibilità nei confronti del medium videoludico, come tutte le cose, cambia da persona a persona. Non esiste un approccio valido più degli altri: il mio concentrarmi sull’intera lore di Nidosacro e sugli infiniti temi che ne animano la scrittura non mi rende un giocatore di Hollow Knight inferiore rispetto ad uno che fa lo Splendore Assoluto in No Damage. È questo il bello: ognuno può scegliere di vederci quello che vuole in un titolo, e generare così un’opinione diversa da tutte le altre, in un sistema che vorrebbe le critiche fatte con lo stampino.
Per questo prima parlavo di privilegio: chi non percepisce una cosa come un bisogno difficilmente può capire i risvolti emotivi che vi stanno dietro. La mia Play mi è stata compagna indissolubile in tante lunghe notti della mia adolescenza, quando la persona che volevo si fermasse a dormire non c’era…mi ha dato un aiuto pazzesco, non perché non mi facesse pensare a niente, ma perché mi faceva pensare ad altro, ed era sempre meglio che pensare a lui.
Per questo, anche ora che è confinata su una mensola con altri oggetti dimenticati, complice il fatto che non sia mai riuscito a separarmene, sostituita dalla sua naturale digievoluzione, ancora mi fermo a guardarla con commozione.
Penso a quante ne abbiamo passate, insieme, e le concedo una carezza di piume, per togliere quel velo di polvere che oscura la sua armatura nera di cavaliere che più di una volta mi ha salvato da me stessə.
Questo articolo è frutto dell'iniziativa Crowdsourcing sovversivo di Gameromancer. Che è 'sta cosa?