Disclaimer: io ci provo. Proverò davvero a non spoilerare esplicitamente il finale di Return to Monkey Island. Però quantomeno dire cosa ci ho visto, cosa ha significato per me, mi tocca. Perché non ho altri modi di analizzare il gioco se non cedere alle parrucconate trama-gameplay-grafica e piuttosto mi ammazzo. Quindi ci provo, ma non garantisco. Nel caso fallissi, mi trovi qua per gli insulti.
Spiegamelo davvero, perché è proprio quando Return to Monkey Island inizia a chiudersi che Ron Gilbert e Terrible Toybox iniziano ad aprirsi. È proprio lì che sta l’essenza del gioco. Quello che andrebbe davvero raccontato davvero, non le minchiate su quanto sia bella o brutta la grafica – che semmai sono funzionali a fare un discorso su quanto sia stronza la gente ad arrivare alle minacce di morte per quelli che sono solo videogiochi. Cioè, finché non li giochi e gli dai un significato. Che guarda caso è quello che fa il finale di Return to Monkey Island. Ma se stai scrivendo una recensione non puoi dire un cazzo di quella roba lì e finisci per non dire un cazzo in generale.
Non si dovrebbero misurare i videogiochi usando come metro gli altri videogiochi. Dovrei dirti che Return to Monkey Island è Herman Melville che torna su questa Terra con la demenza senile e scrive un Moby Dick pieno di polli di gomma con la carrucola in mezzo. Ma avrebbe senso, se Moby Dick non lo hai mai letto? Sei mai passato attraverso la fatica di quelle parole scritte 200 e rotti anni fa? E scrivendo queste di parole mi rendo conto di quanto stia facendo lo stronzo. Di quanto in fondo stronzo lo sia davvero, visto che sto dando per scontato che davanti al nome di Melville hai dovuto chiedere a Siri. E allora vado contro una delle mie regole d’oro e userò i videogiochi per parlarti di videogiochi.
Return to Monkey Island è il The Phantom Pain di Monkey Island. Perché come The Phantom Pain – come Moby Dick, che non a caso è citatissimo in The Phantom Pain – parla di ossessioni. Di quanto ci accechino mentre le inseguiamo, di quanto siano insipide una volta raggiunte perché lo scopo di uno scopo è farsi inseguire e quando lo prendi uno scopo non lo ha più. Non lo è, più. Forse va anche oltre, forse ad un certo punto diventa una specie di The Stanley Parable schiacciato nello spazio e dilatato nel tempo.
Non parla del medium e di come è cambiato. Parla di te e di me e di Ron Gilbert. Di quanto Monkey Island ci abbia unito e cosa sia stato per noi in momenti diversi delle nostre vite. Di cosa sia adesso, adesso che lui è alla soglia dei 50 e tu un paio di Guybrush Junior magari li hai già sborrati.
Quando hanno annunciato Return to Monkey Island s’è parlato un sacco di nostalgia. Io stesso ne ho parlato, anche perché diventa inevitabile se nella stessa settimana Sam Lake butta lì l’idea di rifare da capo Max Payne. Sono due serie che mi hanno segnato, Monkey Island e Max Payne. E la retrofilia per me è un male orrendo, specie applicato ai videogiochi. Davanti a certe cose non puoi davvero mai mettere a tacere quella vocina che parla di quanto tutto questo sia il migliore dei sistemi possibili che ti vuole tassare perché sei così stronzo da pagare le accise sui tuoi ricordi, stile nostalgico del ventennio che è contento di finanziare ancora oggi nel 2022 la spedizione abissina.
E sulle prime a Return to Monkey Island sembra che manchi solo Faccetta Nera: si riparte dal finale di LeChuck’s Revenge, ci sono le citazioni, gli omaggi, tutti i vecchi personaggi. Solo che appunto poi ci si avvicina alla chiusura e allora i discorsi non sono più la nostalgia, ma come si affronta il passato. Come si cerca di superare un capitolo importante della tua vita perché non sei più quella persona e di conseguenza il segreto non è più quel segreto. Adesso Ron Gilbert c’ha 50 anni, non è più il Gilbert del ’94 che ha appena lasciato LucasArt. LucasArt manco esiste più, tutto quello che non è stato rilevato da Microsoft è finito a Disney.
Il segreto di Monkey Island così come lo volevamo noi è morto quando è successo tutto questo. A noi oggi non resta che il segreto secondo chi è Ron Gilbert oggi: non più pirata alla ricerca di fama o tizio che ha bisogno di una nuova grande avventura, ma una persona che ancora oggi per noi è sinonimo di Monkey Island nonostante i The Cave e i Thimbleweed Park. Una persona che deve fare i conti con qualcosa che bramiamo da trent’anni, darci una balena bianca in cui finalmente infilare l’arpione. O almeno è quello che vogliamo noi da lui.
E a Terrible Toybox non frega un gran cazzo di essere il nostro Pequod. Gli interessa dirci per l’ennesima volta nelle nostre vite che Achab non è un esempio da seguire. Che le ossessioni sono sempre sbagliate e quando le raggiungiamo non sappiamo cosa farcene, come i cani che inseguono le macchine in quel cazzo di dialogo di The Dark Knight. A differenza di Achab noi abbiamo avuto un sacco di gente che ha provato a fermarci, ogni singola volta eravamo lì per perdere tutto in nome del nostro Moby Dick. Si trattasse di persone fungibili o di Hideo Kojima, di Neil Druckmann o di qualche altro nome di cui non conosciamo il volto, ma l’opera, l’opera cazzo se sì.