SegheMentali L’indiece delle definizioni di indie

Quando non conosci la strada, chiedi indiecazioni

Tipo, cos’è un videogioco indie?

Questo articolo sa solo di non sapere. Non c’è una risposta univoca. Non ci sarà mai se non ragioniamo a livello collettivo. Quindie qui di seguito trovi pensieri & preghiere sul significato di indie nel videogioco da parte di persone che bazzicano il game dev, la critica o anche solo semplicemente i giochini. Puoi partecipare anche tu: ci trovi quando vuoi su Telegram. Join The Rebellion.

La risposta più onesta alla domanda è che la domanda stessa non vuol dire più un cazzo. In origine con indie (che è la contrazione di indipendente) si indicava tutta quella roba che veniva distribuita senza intermediari, dal produttore al consumatore. Praticamente Super Botte & Bamba II Turbo. Poi via via le maglie si sono allargate e adesso esistono degli “indie publisher” che di pubblicare videogiochi indipendenti ne han fatto un mestiere, al punto che Devolver Digital e Annapurna Interactive sono due colonne portanti dell’industria e organizzano pure i loro press event con un sacco di dobloni alle spalle.

Indie nel videogioco non vuol dire più un cazzo. Eppure la parola si usa ancora

Ed è pericoloso smettere, perché a meno di firmare una Convenzione di Ginevra del giochino c’è il serio rischio che qualcuno (che potremmo chiamare ipoteticamente Geoff K., un nome a caso) continui ad utilizzarla attribuendone e deformandone l’immagine agli occhi del pubblico più casual. E introiando definitivamente il discorso.

Quelle che trovi qui di seguito sono indiecazioni per orientarsi nel discorso. È un punto di inizio in un discorso mai davvero iniziato, perché fino ad ora era solo una scusa per dare del poser a questo o a quell’altro. Sono colpevole pure io. Ma non è mai troppo tardi per ammettere un errore e provare a correggerlo.


Matteo Pozzi: “Indie” in senso puro nell’ambito musicale indicava un modo di fare musica senza case discografiche di mezzo tagliando fuori tutti gli intermediari tra artista e pubblico (poi negli anni è diventata un’indicazione estetica/ideologica che adesso non ha nemmeno più un senso preciso). Nei videogiochi questa cosa non esiste in assoluto, perché sei comunque dipendente dalla piattaforma [per fare un esempio Steam]. Forse lo fanno solo Grezzo e Call of Salveenee. Quindi si torna più ad un discorso ideologico di attitudine, ma è mega-sfumato (come fai a mettere una coccardina “approvato come indie”? E approvato da chi?). Si arriva poi ad un discorso sullo scope del progetto (tipo, quanta gente ci lavora), però a quel punto non ha più senso chiamarlo “indie” e servirebbe un altro termine. E diversi aspetti sono difficili da quantificare, per esempio come fai a sapere quanto è costato un gioco? Magari il dev ci ha lavorato nel suo tempo libero (che non implica che lo sviluppo sia amatoriale). 

Tutto questo per dire che una risposta non ce l’ho, è un discorso sfumato e di attitudine su cui ci saranno sempre incomprensioni e qualcuno storcerà sempre il naso dicendo di essere “più indie di te” o spacciandosi per indie (perché magari sei la divisione videogiochi di un’azienda che fa tutt’altro).

Pietro Polsinelli: La situazione è confusa. Non è più un concetto “rescuable”. Sarebbe un errore mettere un confine netto, per esempio “sopra i 100mila euro non sei più indie”. Però sopravvive ancora un concetto all’interno, cioè quello di autorialità. Con “concetto di autorialità” intendo che il gioco è la proiezione di un pensiero o di un’idea che poi guida la produzione in tutto o quasi. C’è un qualcosa dietro di cui poi si mantiene la coerenza indipendentemente da cosa il mercato dice di fare.

Dai Doppia-A in sù parlare di autorialità è problematico, e l’autorialità spesso è inesistente perché hai pressioni dal marketing, dalla produzione e un sacco di vincoli. E attenzione, l’autorialità può essere anche un concetto che viene da un collettivo, non c’è necessariamente un piccolo dittatore alpha male che impone la sua visione. Poi può succedere anche con grossi budget, ma è più raro. Gli esempi che mi vengono in mente sono soprattutto giapponesi, e comunque era più facile prima. Con un mercato immaturo dove i grandi finanziatori non sapevano ancora bene come muoversi gli scappava lo Yoko Taro che faceva le cose perché le voleva così alla faccia del mercato, ma appunto, gli scappa.

Claudia Molinari: Aggiungo una cosa. Deve essere centrale la questione dello svincolo dalle logiche commerciali. “Logica commerciale” non vuol dire che fai un gioco che non voglia avere un ritorno economico, ma che ti svegli, hai voglia di fare di un gioco che va controtendenza rispetto ai trend perché segui una tua poetica (che è simile al concetto di autorialità a cui si riferiva Pietro, ma è un po’ di più). Nel senso che crei un tuo stile e lo porti avanti, a prescindere da cosa ti consiglia il mercato.

I giochi indipendenti per me sono un po’ come dei trendsetter: si posizionano davanti alle posizioni economiche (anche smenandoci parecchio) ma poi creano dei casi mediatici importanti che poi vengono riproposti dalle major con dei budget più alti. Essere indipendente è essere un avanguardista, un pioniere, una persona che nuota per i fatti suoi e che sa dire tanti no.

Matteo Pozzi: Da dove la prendi prendi sfugge sempre qualcosa. Puoi andare a vedere appunto il budget o il numero di persone che ci hanno lavorato, ma nessuno di questi elementi riassume le questioni più creative di cui parlavano Claudia e Pietro. Però di contro ad uno studio che non ha nessuna velleità artistica o sperimentale ed è formato da quattro amici che stan facendo un gioco iper-derivativo non puoi dire “tu non sei indipendente”.

Claudia Molinari: Forse bisognerebbe ragionare “a zone”. Quindi “indipendente per il budget”, “per le persone” e “per la creatività”. 

Matteo Pozzi: Però anche se siamo tanto affezionati alla parola “indie” ci sono altre parole migliori per descrivere tutte queste cose. Per esempio, se manca il publisher si può parlare di “autoprodotto”. Se il gioco ha una sua poetica si può parlare di autorialità o di significato. Se il budget era ridotto puoi dire “low cost”.

Pietro Polsinelli: Però perché si tiene al termine e si vuole preservarlo? Perché originariamente riservava un angolino di mercato. E proprio per questo non è da buttar via, perché rinunci a quel piccolo zoo (anche se è sempre più difficile farne parte). Esistono sezioni particolari sulla stampa, o delle organizzazioni e delle comunità che fanno particolare attenzione a questa label, l’affezione nasce da qui. Chiaro che se Devolver rilascia i suoi giochi e li chiama “indie” poi quegli spazi diventano di Devolver.

Claudia Molinari, Matteo Pozzi (We Are Muesli) e Pietro Polsinelli (Open Lab Games). Conversazione di gruppo registrata e poi sbobinata per l’occasione.

Nessun uomo è un’isola, ogni giorno influenziamo e siamo influenzati, e per quanto la “Supertramp utopia” rimanga un faro, una luce guida in mezzo a una turbotempesta capitalista, l’indipendenza vera, quella senza se e senza ma, è solo una paradossale fantasia.

Anche il più libero dei creativi, che affida il suo sostentamento ai propri accaniti sostenitori, prima o poi inizierà a domandarsi se sia conveniente rimanere sulla strada battuta o concedersi il lusso della sperimentazione.

Nel caso di uno sviluppatore di videogiochi, l’indipendenza si abbatte violenta sullo scoglio del betatesting senza colpo ferire.

Si abbatte sul budget a disposizione, sul conto in banca, sui figli da mantenere, sul tempo a disposizione. Sognatevela l’indipendenza, è un astratto, una convenzione.

Non si tratta quindi di una questione di soldi, o di quanto l’esterno influenzi la visione dell’autore, ma si tratta appunto della visione dell’autore.

È l’idea che qualcuno si metta all’opera per creare il gioco che vuole giocare, la canzone che vuole ascoltare, l’idea che vuole trasmettere. A volte ci saranno dei compromessi, altre andrà tutto liscio, ma se la visione rimarrà intatta e l’autore integro, allora l’opera sarà indipendente.

Non confondiamo però l’indipendenza con l’autorialità, l’autore potrà concedere la propria firma anche a progetti che non sente suoi. Non confondiamo l’indipendenza con l’assenza di un controllo dall’alto, perché due ragazzini in un garage possono mettersi a fare prodotti solo per ragioni meramente economiche.

Non illudiamoci di poter sapere con certezza se un opera è indipendente o meno, perché a volte non lo sa nemmeno chi l’ha realizzata. Possiamo limitarci a intuirlo,alla stessa maniera di quando, approcciandoci al nostro migliore amico, al proprio disco del cuore, al nostro giochino preferito, diamo per scontato sia spontaneo, o, più semplicemente, sincero.

Francesco di Pietro, sviluppatore indipendente

Per me “indie” ha un significato ben preciso. Significato che, per inciso, penso si sia perso in buona parte a favore di sparate dell’industria “che conta” per perpetuare la storiella del “gioco piccolo fatto dal team piccolo che ci ha creduto fino in fondo” (quando poi hanno dietro magari Annapurna o Devolver).

Tornando al succo: per me “indie” significa gioco fatto con un budget inferiore ai 10.000 euro (cifra non casualmente scelta per stare al pari col mirabolante bando pubblico di IIDEA) e fatto con un team pari o inferiore alle 5 persone che mette al centro del development “l’idea” alla base di tutto.

In un settore in cui spesso sento dire la castroneria “le idee non valgono niente” mi permetto di dissentire, poiché OGNI cosa di successo avvenuta durante la storia umana (dalle piramidi all’Iphone) ha avuto origine da un’idea di qualcuno.

Indie è intraprendenza e creatività.
Indie è pochi mezzi ma fatti fruttare al massimo lavorando con costanza e senza sfruttare i tuoi soci del team come fossero spazzatura o ingranaggi a basso costo (vero “circoletto italiano”?)
Indie è amore per quello che fai.
Indie è, soprattutto, arte e creatività.

Perlomeno per me, che sono uno qualunque che vive benino di questo lavoro fregandomene zero dei palchi di Geoff.

Simone Granata, Kibou Entertainment

Dal cuore mi vien da dire: credo che l’Indie sia uno sguardo che punta all’intimità di ciò che si vuole raccontare.

Se sei un duo che fa l’ennesimo clone di “Doom”, a mio avviso sei uno studio piccolo, ma non uno studio indie. E questa ricerca di intimità credo porti inevitabilmente a sperimentare con la grammatica del videogioco e quindi con le meccaniche, o a risemantizzarle.

Non so se sia un paragone sensato, ma tutti i giochi che ho sentito “indie” in modo onesto mi rimandano in qualche modo sempre a Virginia Woolf, al suo cercare per ogni storia che cresceva dentro di lei la struttura adatta. O a come Donna Haraway gioca col linguaggio per veicolare nuove possibilità. Ammetto che mi sento un po’ coglion* e spocchios* a dire queste cose, e forse anche pretenzios* rispetto a quello che poi effettivamente so fare, però è quel che mi rimane nel cuore ragionandoci.

Marco Spelgatti, owof games

Io ho un solo modo per definire la parola “indie”, ed è “scugnizzo”. Indie per me è essere scugnizzi, vibrare di autorialità, di collera, di fame e bruciare nella propria ossessione. L’indipendenza di un indie non la stabilisce nemmeno il budget, non è quella la vera e profonda misura, ma la libertà autoriale e creativa che si riesce ad imporre, a rubacchiare, come pirati.

Fortuna Imperatore aka Axel Fox

Per me sono “indie” tutti quei giochi che con coraggio sperimentano meccaniche fresche e possono non essere perfetti tecnicamente ma pieni di cuore e creatività.

Gabriele Gangemi, co-founder di Kid Onion Studio