La provincia, se ci nasci, volente o nolente te la porti dentro, e se non stai attento ti frega. Non importa che tu sia uno di quelli con la voglia di scappare – “dove fuggi?” cantava qualcuno – o uno di quelli che resterebbe. Lake è una storia che parla di questo: di una di quelle persone andate via alla soglia della maturità, per costruirsi un futuro altrove, che prima o poi nella vita si trovano a tornare; una persona come tante, una persona come me.
Meredith ha 40 anni, gli anni ’80 sono al giro di boa e lei manca da casa da più di due decenni. Il ritorno è una piccola parentesi, per staccare dalla frenesia della città, sfruttando la scusa del tenere in ordine la casa dei genitori in vacanza. Ma quando ti abitui alla routine cittadina, fermarsi diventa complicato: consegnare le lettere potrebbe essere un’attività rilassante per non annoiarsi…
In realtà, le due settimane a Providence Oak si trasformano in un lungo viaggio sul viale dei ricordi, tra vecchi rapporti che saltano fuori e panorami dimenticati ma ancora impressi in qualche angolo remoto della memoria. Dopotutto, nonostante le differenze tra le campagne dell’Oregon e la provincia italiana, immedesimarsi non è stato difficile.
L’obiettivo è l’immedesimazione, appunto: il gameplay è pensato come strumento per veicolare il racconto e diventa un elemento meta narrativo. All’atto pratico dobbiamo semplicemente andare in giro con un camioncino a consegnare lettere e pacchi, per un paio di settimane. Eppure la ripetitività delle giornate virtuali di Meredith è fondamentale. Da un lato per farci incontrare – e rincontrare – gli abitanti del luogo; dall’altro per trasmettere i ritmi compassati tipici della vita di provincia. Perché tra un pacco e una busta, consegnare la posta diventa un pretesto per inserirsi nella vita delle persone, aiutare gli abitanti e sentire il calore di questo piccolo paesino sul lago.
Il sottotesto è anche quello dell’incomunicabilità della vita nella grande città, che rimane sullo sfondo, nascosta dietro un breve incipit e qualche dialogo, sempre concentrata sul guadagno molto più che sui rapporti umani. A far da contraltare c’è l’immobilismo di Providence Oak, che come tutte le province cambia restando sempre uguale. Le facce diventano subito familiari, sia quelle amichevoli che quelle scontrose, le storie si intrecciano e restituiscono un quadro vivo e umano che puoi quasi sentire tuo.
Lake continua a giocare sul filo di questa nostalgia, che un po’ è quella di Meredith, ma per lo più è quella del giocatore. Del resto, se non si sono vissute quelle esperienze lì, sarà semplice restare indifferenti a certe situazioni, agli schiaffoni del tempo che è passato. Si può restare freddamente al di fuori, evitare di riallacciare i fili del destino e non lasciarsi coinvolgere. Il gioco non si sbilancia, non impone alcuna visione positiva o negativa, e per chi ha sempre vissuto tra le strade della grande città può trasformarsi in una banale vacanza sul lago.
Se invece si è nati in una piccola città portuale, o in chissà quale borgo sperduto tra le montagne, magari su un lago, l’immedesimazione sarà quasi automatica. In fondo è una storia come tante, di gente che torna a casa e rischia di farsi fregare dalla nostalgia. È una storia come la mia, e vivere quelle due settimane da postino dell’Oregon è stato un po’ come tornare a casa in estate e farsi tentare dall’idea di restare. Le risposte che ogni giocatore darà durante queste due settimane dipendono da sé stesso molto più che da Meredith e dalla sua Providence Oak.
Alla fine, Lake mi ha posto davanti a una scelta netta, la stessa che devo fare ogni giorno, ogni anno, e che continua a essere dolorosa, reale o virtuale che sia.