A un certo punto abbiamo smesso di giocare ai videogiochi.

Non so dire se sia successo all’improvviso oppure sia stato un lento scivolare. Non so nemmeno quando sia successo di preciso, forse durante il passaggio al giornalismo online, o magari quando sono arrivati i video. Però è successo: siamo diventati consumatori, affamati e voraci divoratori di aspettative, di desideri, di sogni arricchiti di grassi saturi, compressi e iniettati dritti in vena.

Quest’industria ci ha assorbito, ci ha digerito e ci ha resi dipendenti da un sistema che si autoalimenta, una vacca grassa. I palchi patinati, gli attori di Hollywood, i press tour del guarda-quanto-siamo-fighi: non si tratta più di giocare, si tratta di vendere. Che importa se siamo nel mezzo della più grande catastrofe mondiale da ottant’anni a questa parte?

L'importante è preparare la prossima diretta, il prossimo grande evento comunicativo, pompare le aspettative.


Per approfondire:
ANESTESIA VIDEOLUDICA

Il pubblico non vuole i giochi, quelli li divora nel giro di due settimane e li butta via, se va bene. Se va male li ignora del tutto, o li bombarda di recensioni negative per un personaggio non standard. E allora bisogna nutrirli di showcase, imbottirli di direct, mostrargli sequele di titoli che ignoreranno mentre aspettano di scoprire se la Zaibatsu li accontenterà finalmente con il remake tanto desiderato o con il reboot che tutti sognano.

Eventi talmente ravvicinati che non c’è nemmeno il tempo di confezionarli bene, e poi mancano le date, si sbagliano perfino le piattaforme di uscita, e tocca rettificare subito dopo. Il pubblico ha bisogno che gli venga costantemente ricordato che dietro le quinte si sta creando l’ennesimo enorme titolo costato centinaia di milioni di dollari. Che uscirà sempre troppo tardi e sarà già troppo vecchio dopo poche settimane. Un pubblico educato ad aspettarsi questo, a non ricevere mai meno di questo. La famigerata cultura dell’hype, innestata nei consumatori da publisher che vogliono vendere e da organi di stampa ridotti a filtro sbrindellato.

Ormai semplice braccio destro comunicativo dell'industria.

Quanti eventi sui videogiochi abbiamo seguito quest’estate, sentendoci profondamente straniati, quasi imbarazzati, a vedere l’affanno di un’industria che deve servire il nuovo su un piatto d’argento anche se ancora non è pronto? Per poi leggere i commenti di gente delusa e arrabbiata perché si aspettava di vedere una roba rumoreggiata dal solito spacciatore di Switch Pro e remake di Metal Gear Solid su twitter. Questo a fronte di una delle stagioni più dense di perle indipendenti che la mia memoria da videogiocatore ricorda. Ma quelli interessano solo agli impallinati, il grande pubblico vuole il Decima Engine e Keanu Reeves in copertina. E lo vuole giusto per un paio di settimane, poi dategli Kojima o qualche altra roba che possono insultare senza capire, che se no s’annoiano.

In fondo, che senso ha giocare ai videogiochi quando puoi comprarti il sogno, masticarlo e risputarlo perché non era quello che volevi? E alla fine che importa se la pandemia ha fermato tutto? Che importa se le persone muoiono per produrre e gli sviluppatori vanno in burnout per realizzare i giochi? Niente, ciò che importa è affamare un pubblico già grasso

… Perché continui a masticare sogni da milioni di dollari.