Era il 2004

dawelocklear · Ludovico Einaudi – Nuvole Bianche

Si siede. Prende una penna, un foglio, disegna. È grande ormai, quanto tempo è passato, chissà se ricorda. Probabilmente no, era piccola. Ora le cose sono fantastiche, meravigliose, tutto va nel verso giusto. Se ripenso però tutto cambia. Facciamo un piccolo salto, non di tanto, 8-9 anni. Una notte buia, un parcheggio libero, file di alberi e case a incorniciare la piccola piazzola illuminata. Un vento fresco soffia. Una macchina in attesa, una che deve ancora arrivare. Due bambini sui sedili di dietro, un maschio e una femmina. Lei dorme, lui osserva. “Perché non risponde.” Una donna esce dalla macchina, si copre dal vento con il cappotto. “Guarda se devo perdere tutto questo tempo.” La bimba si copre, il bimbo guarda altrove.

Un rumore in lontananza, una macchina si avvicina

Il bambino si sporge dal finestrino sorridente. La macchina si parcheggia poco più in là. “Alla buon ora.” “Avevo da fare e tu lo sai.” Un uomo esce dalla macchina, si copre con il giaccone. “È tuo interesse venirli a prendere, fosse per me neanche te li darei.” “Sta zitta e falli salire in macchina.” “Tu non mi parli con quel tono, i bambini sono i miei e posso benissimo non lasciarteli.” “Muoviti prima che mi arrabbio sul serio.” Il sorriso del bambino svanisce, si avvicina alla sorella, le urla l’hanno svegliata. L’uomo si avvicina verso la macchina. “Non ti permettere.” La donna piange, afferra l’uomo, lui la strattona. “Ti ho detto non ti permettere.” L’uomo si gira. “Io con i miei figli faccio quello che mi pare.” Il bambino piange, stringe la sorellina a sé. “Chiamo i carabinieri. Sì li chiamo.” L’uomo apre la portiera, il bambino si ritira. “Lascialo stare.” Lo afferra per un braccio, il bambino cade, la sorellina urla. Un colpo alla testa dell’uomo lo fa vacillare. “Che stai facendo. Sei pazza.” La donna si avvicina ai bambini, fa scudo con il corpo. “Tu i miei figli non li vedrai mai più.” “Io ho diritto a vederli.” “E io questo diritto te lo levo e chiamo anche la polizia.” “Vorresti vietarmi di vedere i miei figli, chi ti credi di essere.” La donna porta il cellulare all’orecchio.

Il vento ha smesso di soffiare

“Non sai neanche quello che ho passato.” “No non lo so e non mi interessa. Pronto polizia.” L’uomo afferra il braccio della donna, lo stringe, le toglie il telefono di mano e chiude la chiamata. “Che fai.” “Tu che fai. Guarda stai facendo piangere i bambini.” “E tu no.” “Ma stai zitta.” “Zitto tu.” “Zitti entrambi.” Il bambino si alza da terra, abbraccia la sorella e la fa smettere di piangere, lei gli sorride. “Smettetela di comportarvi come dei ragazzini. Pensate a lei prima di parlare e urlare. É troppo tempo che va avanti questa storia, ora basta. Le cose non possono cambiare, fatevene una ragione.” Le lacrime gli scendono copiose, prende la sorella, apre la portiera della macchina del padre e si mette a sedere. “Allora ci muoviamo?” L’uomo e la donna si guardano, in silenzio. Si girano e si incamminano verso le macchine. Il vento riprende a soffiare.

Everhood
Per approfondire:
Frammenti di realtà

Questo testo che si chiama “Il vento, la sera, le macchine” lo scrissi nell’ormai lontano 2017, sul mio blog di scrittura creativa. Fu un periodo della mia vita particolare e il blog terminò la sua funzione quando pubblicai il mio primo libro su Amazon (in realtà doveva terminare con la pubblicazione di una trilogia che ho iniziato e mai finito). Ora non è che un relitto non aggiornato e visivamente orrendo. Ciò che ho tentato di fare con quei testi è scavare dentro me stesso e nella mia fantasia al solo scopo di esorcizzare le mie paure e, in particolare, le ferite del mio passato. Quello che avete, spero, letto è il racconto di un evento successo realmente e stampato nella mia memoria. I miei genitori si sono separati nel 2004, quando avevo 8 anni, e ogni due weekend mio padre veniva a prendere me e mia sorella di 3 anni in un luogo neutro, di solito un parcheggio. I miei all’epoca si odiavano e finivano sempre a litigare e a chiamare le forze dell’ordine, facendo valere dei diritti giuridici che, sinceramente, valgono un cazzo agli occhi di due bambini e, probabilmente, agli occhi della vita stessa. Ora, per fortuna, le cose sono cambiate, ma…

Quelle paure le ho riviste in Figment 2

Figment 2 mi ha fatto male, perché dietro quei colori e quelle canzoni parla di sogni di altri fatti propri, di menti chiuse che portano a litigi e discussioni stupide per avere beni materiali inutili. A cosa mi serve avere una casa se per pagarla devo lavorare fino a notte fonda e tornare a casa quando mia moglie e mia figlia stanno già dormendo? A cosa serve rinunciare ai miei hobby, alla mia vita, all’amore per vivere come la società vuole che io viva? Tutti questi pensieri (incubi) affollano la mia mente e il gioco. Diventano una coltre scura che come un miasma si propaga in tutte le zone del cervello e spegne qualsiasi luce. Le forze vengono meno e la voglia stessa di rialzarsi viene meno. “Alla fine la vita è così, meglio rassegnarsi”.

Questo finché Figment 2 non trova una soluzione, la stessa soluzione che il me bambino di anni fa ha trovato quando contro la sua volontà lo misero davanti ad una sconosciuta che non faceva che riempirlo di domande: lo spettacolo. Un po’ per arroganza, un po’ per spocchia, un po’ per tenermi in vita, ho capito che l’unica cosa che ha davvero senso in questi anni sulla terra è divertirsi. Quel 2004 è stato l’inizio del mio amore per lo spettacolo in tutte le sue forme. Così come il mondo di Figment 2 va a ritmo di musica, così io vedo lo spettacolo in qualsiasi cosa che mi circondi. Il sole che sorge al mattino, una chiacchierata su Discord, i videogiochi e, soprattutto, le relazioni. Tutto, per me, è un grande gioco, quello vero però, non i giocattoli di Toy Center. Un gioco che può e sarà difficile, ma che in qualche modo si può superare. Tutto questo, chiaramente, ha degli alti e dei bassi. Quando il sipario cala e il pubblico se ne va ecco che torna quell’ombra nera, ma, e me ne sto accorgendo solo ora che la mia vita sta cambiando, è meglio combatterla quell’ombra danzando e scherzando, che rimanere al buio, chiudere il cervello e litigare con chi ti vuole bene.

Non rimprovererò mai mio padre e mia madre, non hanno colpe e ormai ho capito quanto sia difficile vedere la luce quando tutto, soprattutto la società, ti schiaccia. Il loro rapporto era finito da tempo e, probabilmente, anche se invece di pensare al lavoro avessero pensato a loro stessi e alla relazione, tutto avrebbe avuto la stessa conclusione. Quello che non voglio, però, è che la stessa cosa succeda a me o a chi mi sta intorno. Io sento che quel legame tra divertimento e ragione è importante e non va accantonato in favore dello smog che la società ci butta sugli occhi tutti i giorni. Figment 2 ne è la prova, la dimostrazione, il racconto.

Io di Figment 2 mi sono innamorato e in lui ho visto il mio passato, il mio presente e il mio futuro.

quanto spendere
2004 /25€
bignami per pigri
Just a Figment(2) of someone's imagination.
top&flop
> Non voglio
> ricordare
> quel passato...

> ... Eppure devo
> se voglio
> migliorare me stesso