Perché mi piacciono i videogiochi? Forse perché riescono ad essere il perfetto palcoscenico dei miei pensieri.

Ogni volta è un contatto istintivo, senza precauzioni, senza una profilassi che ne prevenga gli effetti collaterali. Le mani attorno a un joypad, strumento che illude al controllo ma che tiene imbrigliati, come cavalli col paraocchi che copre ed esclude il mondo esterno, abbandonando ogni resistenza, lanciandoci al galoppo verso un altro piano esistenziale. È qui che le possibilità si moltiplicano e il tempo trova una nuova funzione, quella di misurare emozioni in costante addizione, non l’insostenibile sottrazione di granelli dalla nostra clessidra. La sfera sensoriale si espande per apprendere un nuovo linguaggio attraverso l’interazione, spogliandoci di abiti inzuppati di smog e quotidianità, nudi e consapevolmente indifesi, pronti ad affrontare noi stessi.

Perché se si gioca per svago, per evitare di pensare e porsi interrogativi, non si è capito il suo senso, non si è capito un cazzo. Il videogioco costringe all’evoluzione, a un confronto borderline tra reale e virtuale, e solo chi cede può aprire gli occhi e rendersi conto della sua rivoluzione.

È questo che probabilmente spaventa molti soggetti, quelli che nel tempo libero hanno bisogno di “staccare”, evitare di pensare ai propri cazzi, come scopare la polvere sotto al tappeto invece che raccoglierla. La comodità di distaccarsi da sé stessi con l’ennesimo programma spazzatura è innegabile, inattaccabile. Avere il coraggio di guardarsi negli occhi ed affrontare il più intimo dei dialoghi terrorizza, lascia inermi, fa distogliere lo sguardo per convincersi che il problema non esista, che i pensieri siano delle mosche da scacciare. Il videogioco è uno specchio con cui dover fare i conti, è l’alter ego della coscienza in cui tutto diventa metafora della propria vita, racconto per partite del proprio presente, passato e futuro. Sono i colossi di Shadow of the Colossus da abbattere come le angosce che affaticano il respiro, è la spensieratezza funambolica di Super Mario Galaxy, quando il mondo ci sembra incredibilmente saturo e pulsante, perché anche la gioia e la serenità hanno un alias videoludico che le sublima, inebriandoci con i suoi vapori.

Il videogioco delocalizza, portandoci in una dimensione più intima, dal tempo dilatato, perfetta per restare soli con i propri pensieri e stati d'animo.

A livello personale, da bambino/adolescente ho sempre visto un controller come il mezzo per accrescere la mia sicurezza, autostima, rifugiandomici e meditando come un eremita sotto una cascata ghiacciata, mettendo in riga (almeno provandoci) il disordine che si affolla nella mente di un ragazzino. Crescendo il suo senso è mutato, prima passando per un periodo di disinteresse e poi ritornando prepotentemente con tutta la forza di cui è capace l’arte, scuotendo il mio spirito intorpidito. Oggi il videogioco è un catalizzatore di pensieri, un kaleidoscopio di sensazioni che si integra perfettamente nel quotidiano. Ogni titolo è come una vitamina, un antiossidante per tenere attivi certi processi mentali, nonché una porta metafisica verso una dimensione astrale che ha tutti i connotati e i benefici del viaggio.

Ci si sente rigenerati, rinvigoriti, arricchiti. Sembra passata una settimana, eppure era una semplice mezz’oretta ritagliata nel flusso della giornata. Ci si gode quell’attimo di distaccamento fisico, sospesi nella morbidezza del proprio divano, per riavvicinarsi al proprio inconscio, come uno smartphone attaccato al caricabatterie. Non sono le stesse sensazioni che si possono sperimentare davanti a un film o ad un libro, opere che richiedono l’annullamento dei pensieri per non essere rese inutili, incomprese, mero sottofondo da piano bar che accompagna la chiacchierata interiore. Il videogioco offre una resistenza, obbliga al multitasking senza però essere avido di attenzioni. Le cavalcate di uno Zelda: Breath of the Wild fluidificano, le maratone di Tetris ordinano, le sparatorie di Uncharted risolvono. Non è sempre così naturale il processo, per carità, è un pensiero/risultato di una sperimentazione durata 20 anni, dai benefici tanto palesi quanto soggettivi, che però sono sicuro molti altri giocatori condividono.

Quel che è certo è che il videogioco è un organismo in continuo mutamento, plasmabile in infinite forme, dalle potenzialità all’apparenza illimitate, che in molti cercheranno di spingere sempre oltre il limite. Cercando nuove forme di stimolazione sensoriale ed emotiva, con esperienze sempre più variegate e con una vestibilità adatta ad ogni soggetto, anche a chi oggi vede ancora il medium come minore, infantile, ancorato alla percezione anni ’80 del panorama, già assolutamente sbagliata allora.