Succede a tuttз, di giocare a qualcosa, chiuderlo e rendersi conto che si sta male.

Lo saprà sicuramente chi ama il multiplayer competitivo: quante volte, dopo una partita disgraziata su League of Legends o una giornata in cui sembra che a Street Fighter riusciate a incassare solo botte senza mai darne, sarete andatз a letto sentendovi un po’ peggio di quando avete iniziato? È normale, fa parte del contratto con gli dèi della competitività, a volte vi sentirete in cima al mondo e altre invece vi chiederete chi mai ve l’ha fatto fare di premere quel tasto “Trova Partita”. Non è però questo il male di cui mi interessa parlare oggi, ma quello che ti procurano i giochi con una storia che ti è piaciuta da morire.

Immagino anche in questo caso molti di quellз che leggono sappiano di cosa sto parlando; personalmente, il primo gioco a farmi stare davvero male è stato Life is Strange, regalo di un misterioso Secret Santa. Non sono un tipo che piange, e non lo dico per fare finta di essere un maschio alfa che non ricicla nemmeno i cartoni della pizza, ma semplicemente perché processo le cose un po’ diversamente. In questo caso, per tre giorni dopo aver chiuso la mia esperienza in quel di Arcadia Bay sono entrato in uno stato simil-depressivo: ero costantemente di malumore.

Allora non riuscii bene a capire perché, di preciso, mi sentissi così

Forse era la delusione per i finali che sentivo insoddisfacenti, troppo una cesura il primo, troppo da horror vacui il secondo. Forse era qualcosa di simile a quel senso di vuoto che sentivo quando finivo una serie di libri che mi aveva appassionato e tenuto compagnia per settimane, solo moltiplicato per cento. Forse era ancora qualcos’altro. Ad oggi, non ho una risposta sicura. Forse non c’è proprio.

Quando a farmi stare male – per fortuna di chi mi sta intorno non allo stesso modo di Life is Strange – è stato I Was a Teenage Exocolonist, invece, la risposta l’ho trovata in fretta (tra l’altro, guarda un po’ le coincidenze, anche questo è stato un regalo, stavolta di un Santa meno segreto – grazie Alteridan). Nel gioco di Northway Games, interpreti unǝ dei primi coloni ad atterrare su un pianeta che finora non ha conosciuto il passaggio degli esseri umani. A inizio gioco lǝ protagonista ha dieci anni, ogni attività che scegli di fare occupa un mese, il gioco finisce a vent’anni. E in questi centotrenta mesi (sì, gli anni vertumniani hanno 13 mesi) di cose ne succedono tante, e tante sono le decisioni che vieni chiamatǝ a prendere, ciascuna chiaramente con le sue conseguenze. Naturalmente le tue azioni hanno un effetto decisivo su quello che succede attorno a te, puoi cambiare l’orientamento della colonia.

Fare la differenza. Ritagliarti un ruolo ben preciso. Ed è proprio quello che mi ha fregato

Jovanotti che gioca a golf in Golf Club Wasteland
Per approfondire:
Ep. 96: Jova Biatch Party

Guardavo Sol, mio alter ego virtuale, aggirarsi per la colonia e lasciare il segno. Raggiungere traguardi. E poi pensavo a me. Pensavo a ciò che ho fatto fra i dieci e i venti anni, e anche più in là, e tutta l’inadeguatezza che è sempre lì in un angolo della tua mente torna a bussare con insistenza. Pensi a quando alle superiori lз altrз uscivano, facevano le loro esperienze, e te l’unica esperienza che facevi era quella necessaria a riempire la sferografia di Final Fantasy X. Pensi a quante cose avresti potuto dire e chiedere al nonno, e poi alla nonna, prima che se ne andassero. Pensi al fatto che ti sei laureato tardi. Al fatto che lз tuз amicз si rifanno casa e mettono su famiglia mentre te ti fai le paranoie per il voto da dare all’ultimo giochino che devi recensire. A quanto è difficile trovare la tua strada in un mondo che sembra correre ai diecimila all’ora.

Stai male, magari non tanto, ma un po’ sì, abbastanza da non riuscire a ignorarlo.

È una cosa che è sempre lì, che aspetta solo che tu non abbia altro a occuparti la mente per tornare a trovarti.

È un atteggiamento in larga parte irrazionale, ovviamente. Primo, perché hai anche tu – come tuttз, anche se magari in uno specifico momento può essere difficile vederlo – i tuoi traguardi, i tuoi motivi di cui andare fiero, le tue soddisfazioni. E secondo, perché se ragioni così è anche perché viviamo in una società che ci ha condizionato a confrontarci con le altre persone, che ci sono delle caselle nella vita che vanno riempite e se non la fai, magari entro un certo traguardo temporale, sei una sorta di fallimento. Ma non è neanche una novità dei nostri tempi, in realtà. Pure Giulio Cesare soffriva al pensiero di quello che Alessandro Magno era riuscito a compiere a trent’anni, mentre lui, invece, arrancava lungo il cursus honorem, e insomma, era Giulio Cesare, mica quello sfigato di Crasso che a parte avere i sesterzi l’unica cosa importante che ha fatto nella sua vita è stato farsi ammazzare dai Parti.

E poi diciamocelo, non è neanche il tuo primo rodeo con i videogiochi, arrivato a questo punto ormai lo sai bene che è stupido fare a gara con i protagonisti di quei mondi di fantasia perché per forza di cose loro compiranno imprese che tu non riuscirai mai a fare in dieci vite. Anzi, è proprio quello il bello dei videogiochi, trovarsi di fronte a situazioni che altrimenti non potresti mai vivere, chiedersi come reagiresti.

Usarli come catalizzatore per scoprire un po’ di più su noi stessǝ.

Ultima Generazione Vernice sul Senato come critica al Governo che ignora il cambiamento climatico.

Però intanto il tarlo è lì e, proprio perché irrazionale, è difficile da mandare via del tutto. Non è un’operazione matematica che, una volta accertatane l’erroneità, puoi escludere senza un secondo pensiero. Anche perché più ci pensi più ti rendi conto che a farti stare male non è solo il confronto interiore, ma quello esteriore. Su di te puoi lavorare, puoi crescere. Ha vari gradi di difficoltà a seconda della persona e di cosa si vuole fare, ma alla fine i limiti più grandi a quanto puoi cambiare sono quelli che ti poni da solo. Ma con il mondo là fuori è diverso, è lì che subentra la frustrazione, il senso di impotenza.

Rifletti su come quello del rapporto con l’ambiente sia uno dei temi centrali di I Was a Teenage Exocolonist, e non puoi fare a meno di ripensare alla rabbia che ti sale quando leggi gente dire che lз attivistз di Ultima Generazione che hanno lanciato della vernice (idrosolubile, nel giro di 24 ore era sparita senza lasciare nessuna traccia) sulla facciata del palazzo del Senato non sono altro che giovani sfaccendati che si meriterebbero di passare qualche anno in carcere. Leoni da tastiera drogati di decreti sicurezza che giudicano giovani di vent’anni disposti a mettersi in gioco per il futuro del pianeta. O ancora, leggi la naturalezza, la casualità con cui l’introduzione di uno dei personaggi ci informa che ha compiuto il processo di transizione e ti torna alla mente il disgusto e il rancore che hai provato quando qualcuno su un forum di giochini ha scritto che essere trans è una malattia mentale che ti porta a fare il cosplay del genere opposto. E poi ti dicono che il problema sono questi maledetti woke che rompono le balle a chi vuole solo poter giocare a Hogwarts Legacy.

E allora sì, che ci stai male, perché queste ed altre sono le battaglie in cui credi. E allora vederle realizzate – o realizzabili – anche se in un universo fittizio, ti fa pensare: sì cazzo, questo è il genere di mondo che vorrei. Un mondo più giusto, più uguale, più aperto, più comunitario. È a questo che dobbiamo puntare. E alcuni ti diranno, ti hanno già detto: ma che ne vuoi sapere te.

Sei un idealista. Dovresti essere più pragmatico. E io dico no, cazzo.

Il problema non sono io che guardo al mondo di I Was a Teenage Exocolonist, pur con tutti i suoi drammi, le sue paure, i suoi personaggi imperfetti, le sue difficoltà, con una punta d’invidia. Il problema non sono le utopie in cui credo io, quelle che vorrei vedere realizzate o a cui vorrei vedere che almeno proviamo ad arrivare.

Il problema è che i vostri sogni fanno troppo schifo.

Questo articolo è frutto dell'iniziativa Crowdsourcing sovversivo di Gameromancer. Che è 'sta cosa?