Il Giappone sta facendo un sacco di remake dei suoi videogiochi. Ma letteralmente un sacco. E questo da ben prima di Final Fantasy VII, di cui paradossalmente adesso il remake ha più senso che mai, visto il tema ecologista e il faccione di Greta Thunberg nelle tendenze di Twitter. Capcom è tornata grande in stile Trump col REmake di Resident Evil 2, e se allarghiamo il quadro tirando in ballo remastered e opere derivate sostanzialmente tutto quello che hanno pubblicato tra DmC Devil May Cry e Devil May Cry 5 è non originale. Devil May Cry 5 incluso, per essere chiari.
È una necessità creativa, quella del remake. Perché si, il Giappone dei maestri del videogioco starà pure tornando, ma lo sta facendo rivedendoci a pezzi le “Proprietà Intellettuali” che lo hanno reso rilevante. Ed è un’operazione che a livello qualitativo risalta perché arriva dopo il Ground Zero delle loro produzioni. Quel periodo storico in cui oltre a non avere idee le applicavano pure di merda. È emblematico il fatto che prima di Devil May Cry 5 Capcom sia andata a bussare alla porta di un team occidentale, europeo, per giunta. Non sapevano letteralmente cosa fare, se non un clone di quel Devil May Cry 4 che – dai, sono passati 10 anni, ammettiamolo – faceva pure discretamente girare i coglioni.
Fa anzi specie pensare che nel giro di una generazione e mezza Capcom sia passata da Okami a Okami HD. Il tentativo ossessivo-compulsivo di rivendere roba vecchia invece di provare a fare roba nuova. Adesso stanno facendo la stessa cosa ma con i soldi, eh. Rendiamocene conto. E mi va anche bene, perché la differenza che c’è tra un Devil May Cry HD Collection con i filmati non rimasterizzati e i menu in 4:3 in un mondo a 16:9 e, boh, Resident Evil 2 Remake, è abissale. Ben vengano i remake di videogiochi, se vai a farmi remake di roba che ha senso riproporre – restaurare, per usare un termine DAMS. Soprattutto lo fai credendoci, non per semplice lucro perché se no non sai come chiudere l’anno fiscale. È assolutamente legittimo che una casa monetizzi le sue IP, se al contempo riesce a preservarne la storia e l’essenza.
Perché alcune opere sono parte dell’immaginario comune e preservarli è un dovere morale, e se i remake di videogiochi lo fanno, facciamolo. Shadow of the Colossus due anni fa era un atto dovuto. E allo stesso tempo un atto d’amore, verso uno dei più grandi tasselli della softeca di PlayStation 2. Portarlo su PlayStation 4, con tutta la potenza di calcolo e gli adattamenti che PS4 permettono, vuol dire fargli vendere al lancio più di quanto abbia venduto negli anni l’originale. E farlo arrivare ad un sacco di persone che l’originale l’hanno perso. Perché anagraficamente non potevano esserci o perché non erano ancora il giocatore che sono oggi. Pochi cazzi, Shadow of the Colossus è un pezzo fondamentale della storia dei videogiochi e andava riportato in auge.
Forse la verità che non volevo vedere è questa, non è una necessità creativa ma una necessità storica. Se vuoi fare un remake che abbia senso devi scavare in un passato che non sia recente. Altrimenti sei Square Enix che vende a 70 euro Tomb Raider Definitive Edition un anno dopo il reboot. E quel passato è dominato dal Giappone. C’era qualche casa occidentale, ma erano case minori, a parte forse la Rare dell’era Nintendo 64. Midway, Psygnosis (che faceva finta di essere di Tokyo ma era di Liverpool). Bisogna dire la verità, abbiamo iniziato a smettere di succhiare il latte dalle tette del Giappone dei videogiochi negli anni ’90. Quando DOOM è diventato un fenomeno di massa e poi Tomb Raider ha fatto la stessa cosa, perché Core Design ci aveva visto lungo.
Ma anche in quegli anni alla fine la maggior parte dei colossal è Giapponese, la piena maturità (e conseguente superiorità) è una cosa molto più recente, forse addirittura della scorsa generazione. Su PlayStation 2 eravamo ancora molto Giappone-dipendenti, alla fine. Cazzo, perfino Xbox ha ereditato il possibile dalle ceneri di Dreamcast, prima di lanciarsi sul mercato. Ed è la più grande piattaforma da gioco occidentale mai prodotta.