Non è Dark Souls che è difficile, è che tu sei un analfabeta. Di ritorno, eh. Hai dimenticato cose che da piccolo sapevi come l’Ave Maria o boh, qualunque generico da farmacia propinato dalla tua religione di riferimento. Perché da piccolino era normale finire le vite in Crash Bandicoot e ricominciare il livello dalla Culonia invece che dall’ultimo checkpoint. Oppure passare l’estate del ’93 a bestemmiare davanti a quel cazzo di delfino per MegaDrive, reso difficilissimo perché sennò la gente lo finisce in 3 ore e lo riporta lesta da Blockbuster.
I boomer nostalgici danno la colpa alla PlayStation. Esattamente come tuo padre quando ti dice che se non hai una casa e una famiglia tua è colpa dei giochini. Esattamente come un Enrico Mentana qualunque quando ha bisogno di boostare i click del suo portalino di informazione. Già questo dovrebbe farti capire che è una stronzata, ma oh. La tesi è convincente perché prima che Sony facesse la mossa Silvio e scendesse in campo i giochini non avevano altro Dio al di fuori della sfida. La memoria costava una madonna, lo spazio su cartuccia era poco e quindi le cutscene te le scordavi. Mettici pure che i mezzi tecnici erano quelli che erano e capisci da solo che raccontare una storia era difficile.
Non potevi prendere lo shortcut di copiare il cinema e nemmeno usare direttamente il linguaggio dei giochini per raccontare cose attraverso i giochini. Eravamo sul bordo del cratere e il profeta ancora non aveva parlato, dopotutto. Se volevi raccontare qualcosa ti toccava fare un RPG, poco da fare. Erano i Tripla-A dell’epoca, e a tutti gli altri per poter competere a livello di longevità non rimaneva che una cosa: la sfida. Non c’erano i salvataggi automatici, e a volte manco i salvataggi. O le Memory Card, perché 2MB di memoria costavano 70 fottutissimi euro. Non c’era Internet, al massimo avevi tuo cugino più grande o qualche rivista che per puro culo pubblicava le soluzioni di quello che stavi giocando.
Non vuol dire necessariamente che i videogiochi erano più difficili. Perché è una supercazzola, non lo erano. Più impegnativi? Si. Più punitivi? Avoja. Ma più difficili, beh, dipende. Kirby esiste dal ’92, eh. Ad ogni modo è qui che arriviamo al grosso contributo di Dark Souls per la storia dei videogiochi, e il punto è che non è difficile: è solo un gioco punitivo, dove non ti puoi permettere di sbagliare se no la paghi cara. Come c’avevano abituato tutti gli anni ’80 e buona parte dei ’90, dove praticamente tutto era il Dark Souls del suo genere.
Non è una questione di difficoltà, se le boss fight alla fine seguono sempre gli stessi pattern. È solo una questione di attitudine, perché nel videogioco medio di oggi non ti capita mai che un baule in realtà non sia un baule da loottare. E invece ‘sto concept in Super Mario 64 c’era. Un gioco è difficile quando l’IA avversaria è bastarda e imprevedibile. Quando lanci ripetutamente bestemmie perché a schermo c’è troppa roba, non si capisce un cazzo e finire un livello no-damage è assurdo. Un gioco è difficile quando è Cuphead, in pratica.
Cuphead paradossalmente non è punitivo, perché se muori ricominci il livello e via. E se stai giocando con un amico e lui è abbastanza skillato riesce pure a resuscitarti, quindi il concetto di punizione viene a mancare. Non è che perdi 3/4 delle anime che hai raccolto e se muori di nuovo le perdi ancora. La differenza sta tutta lì. Dark Souls non è difficile, è punitivo. Vintage, se vuoi. Qualcosa a cui non eravamo più abituati.