Ho finito Cocoon e mi ha stregato. Lo ha fatto senza chiedere il permesso, nel suo dire un sacco senza dire niente, nel suo parlare una lingua, quella del game-design, di cui conosco solo pochi vocaboli, riuscendo ugualmente a farsi capire e rendendo manifesta la portata di quello che fa.
Ma iniziamo dal principio…
WARNING: PARAGRAFO SPACCACOGLIONI/TRITAOVAIE INCOMING!
“Cocoon” significa LETTERALMENTE “bozzolo”, e si riferisce all’involucro che riveste e protegge la pupa o crisalide nelle specie di insetti che presentano olometabolia, nonché alla struttura riproduttiva peculiare di alcuni anellidi, detti oligocheti. In senso figurato, “cocoon” usato come sostantivo indica poi uno “spazio sicuro”, un nido di accezione quasi pascoliana, mentre se utilizzato come verbo indica l’azione di “avvolgersi in qualcosa”, o lo “starsene per conto proprio” tanto caro a molt3 di noi.
Archiviata questa pallosissima introduzione che però assolve alla duplice funzione di levare content e fior di views ad un celebre sitino di giochini e prendermi al tempo stesso una piccola, personale rivincita (you know what they say: for EveryEye, an Eye…), possiamo finalmente passare alla ciccia e parlare del gioco vero e proprio.
Cocoon è quasi indescrivibile, e sono molto d’accordo con il mio capo (cit. impiegato del mese standard) quando dice che non servirebbero parole oltre ad una singola esclamazione di giubilo.
Allo stesso tempo però, l’ultima creatura di Jeppe Carlsen mi ha lasciato con l’obbligo morale di fare il paraculo, e di sovvertire queste aspettative provando a dire qualcosa. Fosse anche solo ringraziare le persone in Geometric Interactive per questa loro prima, meravigliosa esperienza di gioco.
Esperienza che è una lectio magistralis sotto molti punti di vista: il level design è straordinario nella sua semplicità elementare e nell’intuibilità degli enigmi ambientali, che si fondono in maniera organica con l’environment e l’idea del gioco come sessione unica.
“Organico”, by the way, è qui un’altra parola chiave, data l’estetica che pervade i livelli, che prende a mani basse dai volumi di citologia e zoologia che avevo nello zaino in università, e che si fonde con quel guizzo alieno e fantascientifico per dare vita a uno stile riconoscibilissimo, magnificato da una colonna sonora che ne amplifica le suggestioni visive attraverso la gestione programmata dei sintetizzatori a scandire ogni progresso in game.
Ora, io sono un total sucker per certe cose, non lo nascondo, ma quando vedo che le scalinate del terzo mondo mi ricordano le strutture di un reticolo endoplasmatico ruvido, alzo il cappello e mi metto in modalità quadrupede.
Lo diceva Immaneul Kant, e io l’ho studiato non facendo filosofia, ma studiando le cellule e le loro interazioni extracellulari, tra meccanismi di feedback e dinamiche self/non-self. Alla stessa maniera, Cocoon gioca tantissimo con gli ordini di grandezza, e quello che prima era un mondo diventa poi uno strumento per continuare nei mondi successivi, in un perfetto puzzle di puzzle games che va a comporre un disegno artisticamente incredibile. Un incastro perfetto, nel quale la continua variazione degli scenari si integra armonicamente all’aumento delle potenzialità del nostro scarabeo antropomorfo, restituendo un’esplorazione mai dispersiva o ripetitiva e un senso di meraviglia nella progressione che difficilmente non si nota.
Stancə dei paroloni? Ho quasi finito, in realtà.
Non prendete me a metro di paragone, che ci ho impiegato una settimana a fare cinque ore (e un mese a scrivere due pensieri in riga, ma stica). E comunque, piccola nota a margine, è infinitamente godurioso anche se giocato in tranche, sebbene sia innegabilmente pensato per “una botta e via”.
Fatto sta che “cocoon” indica uno stato di passaggio verso una forma ultima, l’immagine degli insetti adulti. Un paradosso, forse, perché Cocoon sa invece molto chiaramente di essere completo, di non avere niente che gli manca e anzi, di avere persino una marcia in più.
E nel medium videoludico, dove la trasformazione, la metamorfosi e l’evoluzione sono una spinta fondamentale, necessaria quanto inevitabile, è bello sapere che c’è chi prende a simbolo qualcosa di incompleto, per poi dimostrare di essere il più rotondo e perfetto di tutti.
Questo articolo è frutto dell'iniziativa Crowdsourcing sovversivo di Gameromancer. Che è 'sta cosa?