Ho paura. Ho una fottuta paura. Close to the Sun, io ho paura di te. Cazzo… Sono solo nella mia stanza… Sono solo, al buio, e non ho una voce amica, nemmeno un dialogo, neanche una parola. Solo rumori di sottofondo e un’ansia crescente. Ti ho installato. Ti ho acceso. Ti ho spento. Non ce la posso fare da solo. Quei suoni… Io non so stare da solo, neanche con me stesso, figurati in un gioco, figurati in una storia. Ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di qualcosa che mi spinga ad andare avanti. Altrimenti non arriverò alla fine, e la speranza morirà dietro quel bancone.
“I feel a little scared. A storm is coming. The thunder’s breaking upon us…”
“Cosa canti?” mi chiese il mio mio amico in chat vocale.
“Voglio giocare ad un gioco, ma mi sono innamorato della canzone. Quindi starò ancora un pò qui a sentirla. In loop.” Stavo mentendo. Se ne sarebbe accorto. Sicuramente.
“È un horror e hai paura. Non è vero?”Come avevo previsto, mi conosce troppo bene.
“Sì…”
“Giochiamolo insieme allora.”
“Ma tu hai più paura di me.”
“Ed è proprio per questo che devi muoverti e condividermi lo schermo.”
“Sei sicuro?”
“Ti ho mai dato modo di dubitare?”
“No…”
“Allora muoviti, che mi sto già cagando sotto.”
Ed è così che cominciò il nostro viaggio. È così che iniziammo a giocare perchè volevamo giocare. È così che cominciò il viaggio di Rose Archer. È così che cominciò Close to the Sun.
Ci perdemmo nei suoi ambienti stupendamente costruiti. Scrutammo ogni angolo, leggemmo ogni rivista, cercammo ogni oggetto, dimenticandoci di star giocando un horror.
Per un breve momento però, perchè piano piano, con una calma magistrale, il mondo crebbe, la storia crebbe, e con lei la nostra ansia, la nostra paura di non vedere più il sole fuori dall’imponente nave.
Cazzo se avevamo paura… Ogni angolo, ogni parete poteva essere il punto giusto per far apparire qualcosa, per farci saltare sulla sedia e sbattere la testa. Avevamo paura del nostro stesso respiro, amplificato dal silenzio tombale intorno a noi e nei nostri cuori spaventati. Ma non era mai come previsto. Nulla veniva a spaventarci da quell’angolo, nulla da quella parete.
Non riuscivamo più a distringuere la verità dalle congetture, non capivamo più se tutto fosse una nostra impressione, se fosse davvero horror. Forse avevamo esagerato.
Ma proprio quando allentammo la corda, ecco che la storia si aprì, potente, registicamente potente. E da lì nulla fu più semplice. Non c’eravamo sbagliati, era un horror a tutti gli effetti. Ma eravamo assieme, non potevamo temere.
Continuammo il viaggio. Notammo qualcosa che non andava. Non avevamo più paura. E non era per la storia. Era qualcosa di legato al gioco. Era qualcosa di legato alle sue meccaniche. Era qualcosa che non dipendeva da noi.
Iniziammo a sentire il corpo di Rose pesante, ci sembrava tutto troppo lineare. Volevamo però sapere la fine della storia. Volevamo chiudere tutte quelle porte che erano state aperte. Volevamo arrivare alla fine della sua e della nostra storia.
Scegliemmo bene. Perchè la fine fu spettacolare, unica, emozionante. Ma soprattutto, la musica che sentivamo dall’inizio del gioco, senza parole, solo con il suo pianoforte sommesso, un vociare flebile ma sempre presente, si aprì completamente, iniziò a brillare. Sapevo che era la stessa musica che sentii prima di iniziarlo questo viaggio, ma non mi fu mai chiara prima della fine.
Rimasero due cose nella nostra testa del lavoro di Storm in a Teacup, due frasi impresse nel nostro cervello e che chiudono qui anche questa storia:
Mai avvicinarsi troppo al “sole”
E