Non ho mai sentito davvero l’eccitazione da automotive del videoludo. Se ci penso è bizzarro. Sono nato nella decade in cui videogioco voleva dire automobili, dove Gran Turismo era sistematicamente il system seller della console più venduta del globo. Dove Squaresoft tirava fuori un JRPG sulle automobili e ci si permetteva di tirare fuori un gioco solo sulle Lamborghini senza manco sbattersi a trovare un titolo catchy a differenza di questa recensione di art of rally. Scrivevi Automobili Lamborghini sulla cartuccia e vendevi easy qualche copia. Anche se il dev era francese.
Chiedermi di parlare di art of rally è l’equivalente giochini del far dire messa a un buddista. È insensato e pericoloso e non si fa, una persona dabbene non lo farebbe. Un redattore presso SitoGenericoDiGiochini.it glisserebbe il discorso. Ma art of rally si apre con un pensiero incredibile, nella sua semplicità. Fare qualcosa di pericoloso con stile è arte. Questo lo posso capire. Cazzo, questo lo posso vivere, mi sforzo di viverlo un carattere digitato alla volta. Niente di quello che faccio qui sopra avrebbe senso se non ci fosse stile, se non ci fosse il pericolo tipico di chi prova a fare qualcosa di diverso dal copione trama-gameplay-grafica da mille-e-una recensioni già scritte-lette-defecate.
Il rispetto liturgico che art of rally ha per il rally traspare fin dal primo avvio. È una celebrazione del famigerato Gruppo B, quello che ha spinto il rally ai suoi limiti facendone pagare lo scotto ai suoi piloti. La gente moriva davvero, su quelle piste. Ed è brutto da dirsi, forse è per questo che l’automotive aveva il suo fascino, perché in storie come quelle dei piloti del Gruppo B vediamo riflesso qualcosa che noi non avremo mai il coraggio di fare e di perdere. Lucio Dalla ha scritto una canzone dedicata a Ayrton Senna, mica a Barrichello che a San Marino ’94 è rimasto solo ferito.
Comunque, com’è come non è, il Gruppo B nell’universo che prende vita quando avvii art of rally non è stato smantellato dalla FIA. È diventato il Gruppo S, e rimane tale finché lo costringi a rimanere in vita usando la tua console come polmone d’acciaio. Dura qualche attimo, forse qualcosa in più, ma finché dura è incredibile anche per te che di rally non sai un cazzo e non hai mai voluto sapere un cazzo.
DualSense è una rivelazione. Una rivoluzione. Funziona anche cambiando due lettere, perché di cosa significa DualSense non ne hai davvero idea finché non lo provi. E il modo migliore per provarlo è con qualche gioco di guida, soprattutto se tu nei giochini non guidi mai. DualSense è quello che mancava ai controller per essere credibili, simula quello che sta succedendo nell’abitacolo facendo vibrare la scocca dove e come serve. Dipende dal terreno, dalla trazione, da quanto stai accelerando. Dipende da un sacco di cose ma se stai giocando con DualSense ti accorgi subito di cosa non va e ti correggi, ti educhi a guidare come guiderebbe uno più sgamato di te.
È quello che mancava. È come se fino ad oggi avessimo avuto un occhio solo. E finché vale per tutti, finché tutti abbiamo un occhio solo, la normalità è quella. Ma nel momento in cui arriva una persona con due occhi, beh, quella persona è un re. DualSense è quell’occhio che ci mancava, un nuovo linguaggio che si aggiunge al verbo dei videogiochi permettendo ai game dev di fare cose mai tentate prima. Anche all’apparenza banali, cazzate come far giocare a me un gioco di corse e farmici finire sotto.