Questo è il videogioco, se osservato nella sua forma più pura. Entrare nella testa del suo creatore, osservarne gli ingranaggi, come un orologiaio alle prese con il più complesso dei meccanismi. Soffermarsi a studiare il suo funzionamento è un gesto di un’intimità incredibile, da utente come da critico, soprattutto nelle opere dalla spiccata autorialità. Si pensi al panorama indipendente. Sembra quasi di stabilire un contatto telepatico tra giocatore e creatore, surfando sulla stessa lunghezza d’onda emotiva e rimanendo estasiati da come quest’arte sia aperta e sempre pronta a rivelare i suoi segreti.
La differenza con le altre forme espressive, in cui l’idea la si percepisce a livello platonico, privo di contatto fisico (privilegio riservato all’artista, in vincolo matrimoniale), è proprio la dimensione passionale dell’atto di giocare, affondandoci le mani, sentendone la consistenza come fosse pongo. È come osservare in rewind un Big Bang cerebrale, dove il prodotto finito si scompone davanti ai nostri occhi per ritornare idea. Una promiscuità intellettuale in cui l’opera si concede ai suoi consumatori, obbligati a spogliarsi della fretta per consumare un rapporto di pura curiosità. Riemerge The Witness di Jonathan Blow, quella sensazione di vertigine agorafobica che dà il sentirsi piccolissimi al cospetto di una proiezione mentale, una dimensione aliena e sconosciuta in cui muoversi liberamente. Non è solo divertimento o puro piacere, è una sensazione fisica che prende allo stomaco, quella tipica del mistero, dell’occulto che fa sentire spaesati, fuori dalla propria comfort zone per scoprire qualcosa di più grande, che non possiamo ancora comprendere: la mente di uno sconosciuto. Un’idea/gioco che va assimilata col passare delle ore, come imparare a nuotare, sintonizzandosi con essa.
Si diventa così parte del grande disegno artistico, elemento fondamentale che usa e viene usato, un dare-avere generoso, caloroso. “Adesso cos’hai intenzione di fare?” chiede l’opera, e noi rispondiamo con un’altra domanda: “Perché vuoi farmi fare questo? Cosa nascondi?”. Il videogioco è arte inclusiva e stimolante, che non esiste senza il giocatore e la sua curiosità, viva e morta al tempo stesso come il gatto di Schrödinger, come la mente di una persona che possiamo decidere di conoscere o lasciar andare via per sempre.