Musei nei videogiochi: Moonlight Museum (Klonoa), una bellezza melanconica e surreale;
Guertena (Ib), orrore e fascinazione in pixel;
Castello di Peach (Super Mario 64), i quadri come portali su nuovi mondi.

E nella realtà? Sì, c’è il Vigamus, ma poi? I mille titoli che rimangono dimenticati, mai portati per le console più recenti, che l’emulazione potrebbe salvare dal dimenticatoio? Ma le case di produzione (vedi il caso Nintendo recente) che osteggiano questa pratica, pur non facendo nulla di concreto per rimediare? Square che fa attendere anni per i porting dei gdr, perché non si è curata di salvare i codici originali? Nel mulino che vorrei, come verrebbero gestiti dei musei sui videogiochi?

Un museo serve a tener viva la memoria storica. Tramandare alle nuove generazioni le voci, la mente e il cuore di un’era è compito difficile e delicato, ma anche, per chi vi è appassionato, una sfida appagante.

C’è una domanda che mi ha tenuto in scacco matto il cervello nelle precedenti settimane; esiste un luogo del genere per i nostri amati videogiochi, che hanno di per sé una natura volatile?

Se è vero che i videogiochi sono, a modo loro, arte, allora non meriterebbero di stare in un museo? In fin dei conti, a cosa serve un museo se non per mantenere la memoria di qualcosa o qualcuno che reputiamo importante e degno di far conoscere alle generazioni future?

Ho camminato per i corridoi del Comstock and Slate Museum, serrando la lingua tra i denti per non rigettare una magra colazione

Di musei nei videogiochi ne ho trovati tanti...

Se ci penso bene, scavando a fondo nei miei già fumosi ricordi di gamer, di musei ne ho già incontrati tanti nel corso delle mie avventure videoludiche. Ho camminato con circospezione per i corridoi del Comstock and Slate Museum, serrando la lingua tra i denti per non rigettare una magra colazione consumata ore ed ore prima, e sbarrando gli occhi, inorridita da un tale delirio propagandistico in salsa distopica americana. A tutt’oggi, l’idea di piantare sulla schiena di un manichino due bandiere a stelle e strisce a mo’ di ali improvvisate mi suona estremamente perversa.

Ho tirato un sospiro di sollievo sedendomi di fronte ai contorti modelli di Bendy e i suoi allegri compari, decisamente meno minacciosi ora che avevo tutto il tempo di osservarli con calma. Ah, quante ore passate accoccolata su quei divanetti gialli che non definirei proprio come comodi, canticchiando tra me e me I’ll Be Your Angel e felice di sapere che, almeno stavolta, non avrei dovuto vedermela con altre creazioni di quel mentecatto di Joey Drew…

A proposito di divani scomodi. Subito mi torna in mente il Posto Riservato, quel maledetto divanetto bianco nel museo del pittore Guertena: per lunghissimo tempo, ho confuso i cavi rossi che avvolgono lo schienale con veri gambi di rosa, senza lo stralcio di un fiore ad adornarli ma, in compenso, pieni di spine. Che vergogna. Avrei dovuto accorgermene prima, data la mia pedanteria in materia di dettagli, ma come avrei potuto concentrarmi sui particolari quando ero braccata senza sosta da quegli inquietanti manichini femminili senza testa? Senza contare i quadri che mi tendevano i trabocchetti per mangiarmi in un boccone, i puzzle astrusi, quella bambina bionda tutta matta che… oh, già, dirlo sarebbe spoiler. Bah.

Mai capito il perché di quest’odio verso gli spoiler…

O meglio, non lo capisco perché, dopotutto, sono sempre stata una curiosa: la mia collezione di libri e memorabilia su Alice lo attesta per me. Facile, quindi, che mi esalti quando un gioco mi lascia compiere azioni “alla Alice”, come succede in sua maestà Super Mario 64: saltare in un quadro per accedere a mondi nuovi da esplorare con infantile stupore non è forse affine all’attraversare uno specchio magico che altro non è che una porta su un mondo parallelo?

Se ci penso a fondo, riallacciandomi in corsa al discorso sui musei, questa versione del castello di Peach altro non è che un gigantesco museo interattivo, e il nostro inossidabile idraulico baffuto è perfetto per il ruolo di guida. Ci porta in posti di sopraffina ludicità come la Fortezza Whomp o l’Isola Granpiccola (quest’ultima perfetta per “giocare ad Alice”, vista la gimmick del cambio di dimensioni). Ci accompagna alla ricerca della camera sepolcrale della piramide del Deserto Ingoiatutto e ci fa sguisciare tra le anguille che infestano la Baia Pirata, e poi ancora si perde con noi nei meandri della Grotta Labirinto o nel seminterrato della magione del Re Boo. E poco male se non sa dirci la data esatta dell’inizio dei lavori di costruzione del castello o quanti sovrani abbiano preceduto la pastellosa principessa alla guida del regno dei Funghi; Mario sa dove farci guardare per stanare le zone segrete, e tanto basta.

Saltare in un quadro per esplorare nuovi mondi con infantile stupore non è forse come attraversare lo specchio magico di Alice?

Infine, al cuore della mia essenza di gamer, ci sono le infinite visite al Moonlight Museum di Klonoa 2: Lunatea’s Veil. Poetico, surreale e venato quanto basta di malinconia, questo museo gioca di continuo con la percezione. Si deve invertire spesso e volentieri il sopra e il sotto, scivoli e scale si percorrono in ambo i sensi, i puzzle hanno un che di Escheriano (se mai Escher avesse dovuto progettare un museo a misura di bambino). E poi ci sono gli specchi, gli echi di risate femminili che acquisiranno un senso solo a livello finito per bocca della nostra fida Lolo, squarci insensati e bellissimi di cosmo che riempiono spazi altrimenti vuoti e… e, beh, il mio momento preferito in assoluto: la caduta fluttuante, in puro stile Alice della Disney, attraverso un tunnel caleidoscopico. Un momento di pura estasi visiva, un tuffo da sogno tra frammenti di arcobaleno in continua amalgamazione, sottolineato appena da una lieve musica da giostrina dei cavalli. Una di qualità, eh, non le robe caciarone che stanno al lunapark di zio Gigi.

A conti fatti, di musei nei videogiochi ne ho visti tanti. Ma ne ho visti, di musei sui videogiochi? Sono solita conservare i biglietti dei musei che ho visitato nel corso dei miei viaggi, ma non ce n’è uno che provenga da una mostra fisica. Non possiedo foto (scattate con il cellulare perché non ho soldi per una Reflex) che attestino il tempo passato a meravigliarsi davanti a bozzetti e schizzi preparatori, modelli e ricostruzioni degli ambienti di gioco dallo scheletro poligonale alla stesura definitiva. Non ho letto infinite didascalie che sciorinavano dati o storie dietro la creazione di certi livelli, né mi sono seduta a guardare un documentario passato in loop, che raccontasse della vita del team di sviluppo durante la creazione del gioco.

Sì, è più facile guardare tutto online, ma quanto è diverso fruire di questi materiali in maniera volatile, sgangherata e disorganizzata, in opposizione ad uno spazio fisico in cui sentirsi immersi, sentendosi quasi obbligati a restare in silenzio per via di un timore referenziale che si prova davanti alla Storia, quella con l’esse maiuscola, che sai che ti insegnerà qualcosa di prezioso (ah, le scomode eredità degli anni della scuola). Sì, so che a cercare bene si trovano mostre del genere. A Roma c’è il Vigamus, e qui e là per lo stivale, come poi nel resto d’Europa e in America, ne esistono di associazioni che recuperano titoli e macchine delle più svariate epoche, compiendo un lavoro che chi di dovere magari non fa. Sì, care Nintendo e SquareEnix, mi riferisco proprio a voi: se perdeste più tempo a preservare in modo fisico i vostri titoli, magari la gente non dovrebbe ricorrere all’emulazione! Potrei star ore e ore a stracciarmi le vesti sul fatto che far aspettare decenni per una remaster bruttarella di Final Fantasy otto e nove, grazie all’essersi persi i codici originari, è da criminali. E, invece, l’occasione fa ancora il gamer pirata.

Come dite? Se dovessi farli io, dei musei sui videogiochi come si deve?

In primis, mi occorrerebbero dei redivivi Bernini e Canova per celebrare, come solo la tradizione scultorea italiana sa fare, bellezza ed eroismo videoludico. Pensate ad un Link o una Zelda, giusto per attenerci sull’iconografia classica, pensate al marmo lucidato a tal punto da rendere quasi trasparente il tessuto dei loro abiti, la resa squisita del panneggio. La tensione di un braccio e di mani, nati pietra e divenuti carne, colti nel momento precedente lo scocco di una freccia. Roba che farebbe gonfiare il petto d’invidia al David.

In secondo luogo, nei miei musei sui videogiochi ci sarebbe assoluto bisogno di gente fidata ed appassionata. Ho già due nomi per gli eventuali curatori del museo: Brandon Sheffield e Frank Cifaldi, due matti al soldo della SNK che si sono girati tutto il Giappone pur di recuperare cabinati, che hanno lavorato giorno e notte per restaurare e, laddove non era possibile, ricreare il feeling originario di molti dei giochi presenti nelle varie collezioni Neo Geo che potete trovare oggi sui vari store online. E per dedicarsi con tanta ostinazione a cercare giochi passati in sordina ma, comunque, con un valore storico nel valutare la crescita e l’evoluzione delle botte dueddì, questi signori li vorrei sotto contratto al più presto.

Questo articolo è frutto dell'iniziativa Crowdsourcing sovversivo di Gameromancer. Che è 'sta cosa?