Cambiano le coordinate temporali. Non è più il 2002 di Fusion, è il 2 D.D, dopo Dread. O il 2023, se preferisci. Cambiano anche le coordinate spaziali: non più il Giappone che ha inventato e perfezionato i videogiochi moderni, ma un improbabile Messico della scena indipendente che non ha di certo lo stesso blasone. Non più Nintendo R&D1 ma Halberd Studios, non più Samus ma Europa. Per quanto mi riguarda, non più GBA ma Steam Deck.
Giocare 9 Years of Shadows per tantissimi versi è come rigiocare Metroid Fusion vent’anni dopo. Scoprire che i metroidvania si fanno ancora così, la ricetta non è cambiata, è semplicemente stata riscoperta. È accorgersi che anche dal basso di due (scarse) milioni di copie puoi comunque fare la storia. Non se ne accorgerà nessuno, sarà un lavoro ombra che poi starà a storici e filologi e figure del genere attribuirti, ma per quei pochi che sanno – per quei pochi che c’erano – sarà impossibile non vedere l’ovvio collegamento. Le stanze di salvataggio e quelle di transito, i poteri delle armature di Europa che sono molto simili a quelli della tuta di Samus, fino ad addirittura la morfosfera. 9 Years of Shadows è praticamente una cover, lo stesso brano suonato in un momento diverso dello spazio e del tempo con strumenti diversi. E quindi un brano diverso. Familiare, però.
Gli strumenti sono diversi. In vent’anni il videogioco è cambiato diverse volte, e anche a parità di ricetta e di spartito si incarna lo zeitgeist di un’epoca che non è l’epoca di Metroid Fusion. Europa può essere donna molto più apertamente di Samus, non ha bisogno di nascondere il suo genere sotto un’armatura Sci-Fi. A differenza delle giocatrici che bazzicano il medium. In 9 Years of Shadow c’è soprattutto un’attenzione alla Quality of Life di chi sta davanti allo schermo diversa, a volte perfino eccessiva. Ogni armatura ha i suoi poteri e le sue ricadute sul platforming, ma spesso e volentieri Europa è in grado di equipaggiare quella corretta in autonomia. Si entra in acqua e si passa immediatamente all’armatura di Poseidone, senza bisogno di scorrere usando i dorsali fino ad equipaggiarla.
Questa Quality of Life si fa meccanica di gioco fin da subito. Non solo perché spesso e volentieri by design bisogna utilizzare poteri diversi in sequenza e lo sforzo è molto meno macchinoso di quello che poteva essere, ma per via di Apino. In 9 Years of Shadow non c’è propriamente una barra della salute, ma un numero di colpi che Europa può incassare prima del game over. Solo che per essere colpita deve essere a zero la barra dello scudo, che è anche la barra del mana. Cioè degli attacchi a distanza di Apino, l’orsetto di peluche magico dello screenshot qui sopra. In più quando la barra si svuota è possibile riempirla subito se si preme il grilletto al momento giusto.
Il risultato è che se si gioca in un certo modo non c’è la necessità di giocate pixel-perfect per superare un boss, è accettabile prendere danno se si riesce poi a rimediare facendo leva sui riflessi. Quando i boss non sono schermati contro le magie addirittura conviene quasi quasi giocare in modo più aggressivo. È una danza uguale e contraria a quella dei souls, al posto del parry c’è questa meccanica di ricarica ma le logiche – le conseguenze – che ci sono dietro sono molto simili.
Sembra una “invenzione” da poco, ma è il core dell’esperienza di gioco. È quello che poi rende 9 Years of Shadow un gioco di genere che ha assolutamente dignità di essere giocato lo stesso. Giocato da tutti. Non solo da chi c’era quando è uscito Fusion e a Fusion tornerebbe ben volentieri, anche solo perché dopo Dread c’è voglia di Metroidvania così. Metroidvania che guardano al capostipite meno pop del genere più che all’RPG di Castlevania – con tutto che i numerini li appoggia lì anche 9 Years of Shadows, ma sono inutili. Come in Castlevania.