E come vuoi che stia?
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Da quando hanno chiuso Wonderland
Suona la mia brutta copia, la mia cover band
La narrativa dominante quando si parla di indie è questa: i giochi che ci salveranno tutti, gli unici che hanno le idee, che parlano di tematiche sociali e mostrano qualcosa di davvero nuovo. Cazzate. La massa di produzioni indipendenti non fa altro che prendere quello che si faceva su NES e SNES e rifarlo, spesso pure non aggiungendo un cazzo. Li chiamiamo tributi, lettere d’amore, ci si masturbiamo sopra vittime ineluttabili della retrofilia. Sono cover, gruppi di paese che si cimentano in qualche classico dei tempi andati riproponendoci i Beatles. A John Lennon però hanno sparato, e per quanto possiamo imitarlo nessun rituale lo riporterà mai indietro.
Timothy and the Tower of Mu ha degli ovvi rimandi ai classici. Negarlo sarebbe da incompetenti, basta guardare uno screenshot a caso del gioco per respirare una certa aria. Però i videogiochi hanno questo vezzo che per essere capiti vanno giocati, non basta guardarli. E giocando Timothy and the Tower of Mu le vibes sono quelle da grande classico dell’era SNES. Solo che poi arriva a tradimento quell’accordo riarrangiato, quella strofa cambiata che rivendica un’identità diversa.
Giocando ci si rende conto che non è una roba nuova pensata per sembrare vecchia, ma piuttosto una roba vecchia che ha preso spunto da alcune produzioni nuove. Non è la prima volta che in un videogioco vengono inserite ricette a mo di collezionabili. Timothy and the Tower of Mu però lo fa a modo suo. Non si è guidati – come in praticamente tutti gli altri aspetti dell’esperienza –, per prima cosa. Ma soprattutto non basta limitarsi a cucinare il piatto. Questo va portato all’NPC che lo ha chiesto ricordandosi chi era, dov’era e soprattutto affrontando il platforming spietato delle mappe. Che poi è il cuore dell’esperienza e perché non ho iniziato a parlarne da lì non lo so manco io, ma vabbè.
Timothy and the Tower of Mu è stronzo. Non tanto perché se finisci i classici cuori ricominci dal checkpoint, quanto in prima battuta per una certa schizofrenia nella disposizione di questi. Si passa da momenti in cui ce ne è praticamente uno per stanza a spezzoni dove se ne avverte la mancanza come se improvvisamente t’avessero staccato l’acqua calda a casa. A questo poi va aggiunto il fatto che il gioco come si diceva non spiega quasi nulla. Cosa che si traduce in alcune hidden mechanics che se non le scopri ti viene voglia di aprire la chat con il game designer e mandarlo a fanculo. Tipo che ti accorgi dopo 3-4 orette di gioco a che servono le fontane. O che il fondale non è necessariamente fondale e se spari attraverso le torce il proiettile prende fuoco e può accoppare anche quei fantasmi altrimenti invulnerabili.
Anche i controlli non sono i classici controlli da platform 8/16 bit. Nel senso che Timothy può sparare solo quando è completamente fermo o quando è in aria, e in questo caso diventa importante prendere correttamente i tempi per riuscire a colpire i nemici. Oltre a dover considerare la gittata della sua fionda, che non copre tutta la schermata da una parte all’altra stile palla di fuoco di Super Mario. Bisogna darci contro, capirli e assimilarli. E tenere conto anche di alcune cose che di solito in un platform di questo tipo non ci sono, tipo la barra della stamina quando sei appeso a qualcosa. O la possibilità di usare il dash per interrompere un’animazione e cambiare passo. È appunto quell’idea di vecchia scuola che ha preso lezioni da quella nuova e adesso vuole ristabilire la catena alimentare. Anche perché poi artisticamente Timothy je da. È proprio bello da vedere – ma anche da sentire – con il risultato che spesso mentre si tira il fiato completando una schermata ci si sofferma sui dettagli dello sfondo e chiusa la partita la colonna sonora non ti lascia mai, rimanendo incuneata in testa.