Una recensione di Swordship: di riscaldamento globale e di pirati
Seduto in cabina di pilotaggio, metto su le cuffie e chiudo gli occhi per un attimo. La musica comincia a pompare. Il beat sale di ritmo, mi avvolge. Nel buio delle palpebre riesco quasi a rivedere il passato. Riesco quasi a sognare il ricordo di una di quelle notti in discoteca, prima della catastrofe, quando ero io a dare il tempo, quando ero io a far muovere la folla con la mia musica, i miei dischi. Sento crescere l’istinto di muovermi a ritmo, sempre più forte e sempre più veloce, e capisco che devo riaprire gli occhi, devo tornare alla realtà e far fluire questo istinto, ma in modo diverso. Non sono in discoteca, non sto ballando assieme alla mia gente, quel mondo non esiste più.
Ormai ci sono solo acqua e detriti, straricchi ed esiliati, megalopoli e terre desolate. E quei bastardi se ne stanno nelle loro città di ferro dopo aver bruciato il pianeta e averci abbandonati a noi stessi. Armeggio con i comandi della plancia e do gas, comincio a sfrecciare ad alta velocità per quest’oceano infinito, tra i detriti del mondo che ormai non esiste più, diretto verso le rotte commerciali del capitalismo imperituro. Anche oggi mi tocca rubare quel che posso, per la sopravvivenza dei miei compagni. Perché non è bastato il pianeta, si sono presi tutto, non ci resta che rubargli le briciole.
Il mondo sta bruciando. Mentre festeggiamo i 20° e passa a Natale e facciamo il bagno beati (e beoti), la soglia di non ritorno per la Terra è sempre più vicina. Mentre arrestiamo lə attivistə con la vernice lavabile sui palazzi di un governo che prima il capitale e dell’ambiente sticazzi, il rischio di essere davvero l’ultima generazione è sempre più alto. Swordship racconta di un futuro sempre più verosimile, in cui tutti questi rischi sono diventati realtà, un mondo in cui il surriscaldamento globale ha avuto la meglio sui nostri tentativi di arrestarlo e ha sciolto i ghiacciai, rendendo il pianeta un gigantesco oceano.
In questo immaginario il capitalismo resiste ancora, all’interno di tre città artificiali sul fondo dell’oceano a uso esclusivo di chi se lo può permettere, con gli affitti che superano il milione al mese e se non ce l’hai t’attacchi vai in esilio. Insomma, Milano tra un paio di decenni. Se non c’hai i soldi ti buttano fuori, non ti resta che nasconderti da qualche parte nelle poche terre ancora emerse e desolate. Dopotutto è un delitto non rubare quando si ha fame.
Le premesse narrative sono appena accennate, ma potentissime, e da qui prende il via un dodge ‘em up veloce, intelligente, immediato, di cui mi sono drogato per giorni. In pratica Swordship è esattamente quello che si vede: una schermata fissa a rappresentare con le linee cinetiche un oceano che scorre, una futuristica e iper veloce nave da muovere in giro e immergere sott’acqua, dei veicoli nemici che cercano di affondarti e dei container da rubare e consegnare. Il gameplay loop è estremamente semplice e si basa in sostanza su livelli con un numero prestabilito di container da cercare di rubare mentre si schivano gli attacchi.
La formula però è impreziosita da un sistema di punteggio che incoraggia a rischiare e premia i trick più pericolosi. Rischiare l’immersione all’ultimo secondo, lo scatto indietro fulmineo un attimo prima che un proiettile ti colpisca, possibilmente in modo che quel proiettile colpisca un altro nemico, rischiare di stare vicino a una mina quel tanto che basta a farla esplodere e allontanarsi per un soffio.
Dopotutto Swordship è Robin Hood nel futuro distopico verso cui questo capitalismo ci sta portando. E che Robin Hood sarebbe senza il sorriso di chi riesce sempre a fuggire in modo rocambolesco facendosi beffe dei suoi nemici? E quindi si gioca cercando la beffarda auto eliminazione delle macchine del sistema mentre si rubano i loro preziosi container, sgusciando via all’ultimo come sempre. E no, non si spara, però alla fine non ne ho nemmeno sentito particolarmente la mancanza, perché già così ha un sacco di stimoli, è una sfida continua, è una soddisfazione continua.
E poi quella musica. Swordship senza la sua musica non esiste. Dopotutto come si fa ad andare veloce senza della techno ritmata che ti pompa nelle orecchie? Il beat parte forte da subito e continua sempre meglio, di livello in livello aggiungendo qualcosa, fino ad arrivare alla soundtrack dei credits che aggiungendosi all’adrenalina per aver battuto il boss finale (e il capitalismo, ancora una volta) mi ha costretto letteralmente ad alzarmi dalla sedia e muovermi a tempo mentre scorrevano i nomi di quei quattro svizzeri pazzi che c’han lavorato.
Alla fine Swordship è solo un giochino piccino, molto piccino, un dodge ‘em up rogueli*e con relativamente poco contenuto, che la prima volta ho finito dopo un paio d’ore di gioco. Poi aggiunge un po’ di roba, tra nuovi nemici, nuovi livelli di difficoltà decisamente più impegnativi e gratificanti, nuove condizioni meteo, nuovi power up e qualche bozzetto. Nulla che alla fine arrivi a stravolgere davvero l’esperienza che avevo vissuto in quelle prime due ore.
Però di ore ce ne ho fatte altre dieci in scioltezza e ci sto ancora giocando. Ok, è praticamente un concept game. Ok, la lore è una figata ed è un peccato che non abbiano approfondito di più per sottolineare ulteriormente il messaggio socio-politico. Ok, sarebbe stato probabilmente uno dei miei indie preferiti del 2022 se il team avesse espanso la formula e variato sui contenuti e la rigiocabilità. Ok, a volte i nemici volanti ti vengono davanti al cazzo e a fare una leaderboard mondiale complessiva non ci vorrebbe nulla, e invece manca. Però oh, la formula mi ha catturato e tenuto lì per un botto, e penso che chiunque lo provi non possa che restarne stregato nei primi cinque minuti. E poi certi giochi non hanno bisogno di fare i salti mortali, di offrire ore e ore di contenuti, di spiegare per filo e per segno quello che vogliono dire tra le righe.