Facciamo un passo indietro. Ho passato i miei primi anni di università a giocare solo ad un gioco, online, totalmente infognata in un turbine di adrenalina ed entusiasmo. A 20 anni, abbastanza tardi (o forse no?), avevo finalmente scoperto cosa significava giocare online. Significava avere relazioni online. Significava inventare scuse per non uscire. Significava giocare gratis. Significava spendere soldi per i cosmetici. Significava provare le nuove modalità. Significava giocare competitivo. Significava guardare i Mondiali. Significava studiare le build migliori. Significava iniziare alle tre del pomeriggio e finire alle nove di mattina. A giocare solo ad un gioco, ma non da sola.
Quel gioco che ti faceva credere di essere davvero parte di qualcosa. Qualcosa che non potevi spiegare alle persone che stavano al di fuori di quella bolla. Da fuori mia madre mi sentiva urlare, di gioia e di disperazione. Quelle urla che poi sono diventate le sue quando ho iniziato a non darmi più esami all’università. Non che fosse il gioco il problema, intendiamoci, quanto la professoressa stronza, ovviamente. Ma, da fuori, ciò che si vede è quello: l’anno prima dell’installazione eri la prima della classe, con una media da fare invidia anche ai tuoi compagni maschi (facevo Informatica, erano loro gli smanettoni), quello dopo, invece, eri una delle tante. E a me andava bene così, andava bene essere una delle tante, perché all’interno di quel gioco ero l’unica.
L’unica donna.
Quel gioco mi aveva fatto entrare così tanto nella vita delle altre persone che ormai erano diventate anche loro parte della mia. Quel gioco che mi ha permesso di conoscere persone da tutta Europa, che mi ha portata in Spagna al mio primo LAN party, quando ero ancora quella ragazzina ingenua, dolce e naif che si innamorava online (sia dei bronzo che dei diamante eh, non si fanno discriminazioni di Rank).
Ormai era diventato un meme che le mie tette fossero in giro per mezza Spagna. E a me andava anche bene così, finché non mi hanno fatto perdere una persona per me importantissima.
D’altronde che donna di pochi costumi sei se tre mesi prima che conoscessi quella persona avevi mandato le tette a un tizio con cui parlavi? Come ti permetti ad essere così tanto a tuo agio col tuo corpo da volerlo condividere?
Ormai quando entrava una persona nuova nel gruppo e voleva una mia foto gli venivano mandate le mie tette di default, come bonus di benvenuto, a mia insaputa ovviamente. E tu cosa facevi? Non volevi ovviamente perdere quella cerchia che avevi finalmente trovato e ritornare nella tua solitudine videoludica. Quindi, anche quando lo scoprivi, stavi zitta, facevi finta di non credere alle cose che ti venivano riferite e andavi avanti, invisibilizzando i problemi. D’altronde so’ ragazzi.
Finché arrivò quel magico momento in cui decidesti che era tempo di laurearti, come società vuole, e lasciar perdere i giochini. Lasciar perdere quelle relazioni – malsane – che ti eri creata e che credevi sarebbero durate per sempre, perché un legame simile non poteva in alcun modo essere scisso. Ti ripetevi che per concentrarti avevi bisogno di spectare le partite dei tuoi compagni, se no non riuscivi a studiare.
Scindere quel legame fu terribilmente doloroso, ma a posteriori fu la decisione migliore che potessi prendere.
Non durò molto, solo un annetto lontano da quella che ora riesco a capire fosse tossicità e morbosità. Fin quando le fauci del capitalismo non si spalancarono di nuovo e inghiottirono il mio animo perennemente romantico con l’uscita di una coppia di personaggi innamorati che combattevano assieme. Altro gruppo, altra storia direte voi. No, era sempre la stessa storia, con meno revenge porn (da notare il meno e non il senza). E se in qualche angolo recondito del tuo cervello hai pensato “Ma questa se le va a cercare però” piuttosto che “Le community nerd sono formate per lo più da tizi molesti e maschilisti”, fratellə fatti due domande.
Però quanto cazzo è bello giocare con gli amici? E, quindi, continui imperterrita a giocare sempre allo stesso gioco, per anni e anni. Intanto cambi sei case, prendi due lauree e inizi a lavorare, ma quel gioco resta sempre lì. Hai sprecato sette anni della tua vita a giocare solo a quello. Uscivano perle videoludiche, ma a te importava solo di fare colpo sul tuo collega di lavoro che ti vedeva come una dea perché ci giocavi. Perché è questo ciò che ha insegnato la comunità nerd alle donne.
Questo è tutto ciò che sei, un token. Una videogiocatrice, che gioca solo ad un gioco eh, ma pur sempre una videogiocatrice. Finché non te ne accorgi, come un fulmine che cade sulla testa di Tidus. Ti accorgi che non sei solo quello, che non vuoi più essere feticizzata, che non vuoi più essere l’unica. Che essere l’unica ti ha portata solo ad avere una finta parvenza di importanza. Ti accorgi che non ti bastava più e volevi avere davvero voce in capitolo all’interno comunità. Quindi che fai? Ti metti a studiare. Perché vi domanderete? Perché per essere all’altezza di essere ascoltata devi sapere tutto.
Non puoi aver giocato a pochi giochi, se no non sei credibile. La tua esperienza da sola non basta, non è valida. E’ valida solo quando è supportata e approvata dalle alte sfere della comunità nerd (i maschi, stacceh).
Fin quando non trovi quella comunità che ti ascolta davvero. Che pensa che la tua esperienza sia valida. E, soprattutto, che non ti scoperebbe neanche col cazzo di un altro. Perché non ti vede più come un fetish, ma come una persona con un suo vissuto – videoludico e non solo – personale.
Questo articolo è frutto dell'iniziativa Crowdsourcing sovversivo di Gameromancer. Che è 'sta cosa?