Non so quando è cominciato di preciso il mio rapporto con la musica. Ad impegnarmici lo collocherei tra le scuole medie e l’inizio delle superiori, ma sarebbe un’approssimazione perchè di quegli anni di tempeste ormonali e cambiamenti fisici non ho ricordi particolarmente allegri nitidi sotto il punto di vista temporale. Ma pur non sapendo di preciso dove collocare la data d’ingresso della musica nella mia vita adolescenziale so perfettamente perché ci è entrata, senza mai più andarsene.
Ho trovato il mio rifugio chiudendomi la testa tra le cuffie del mio vecchio walkman, tra dischi originali pagati e strapagati e CD masterizzati che dovevi sempre intitolare in un qualche modo per non confonderli. C’era una qualche magia nello scegliersi con cura le canzoni da riversare su dischetto, che poi si è spostata nei primi lettori MP3 dalla memoria così limitata che per decidere chi era dentro e chi fuori dovevo farmi delle cazzo di Royal Rumble in testa. Poi oh, se avevi un iPod avevi più spazio, ma ti tagliavi fuori dal giro di chi non aveva iTunes. Ma non divaghiamo nelle piccole memorie di anni fa comunque, é roba da treno della nostalgia tra MySpace e Netlog.
Quindi sticazzi, siamo nel 2023 e le cose sono cambiate. Sono cambiate le tecnologie, i dispositivi, è cambiato anche il modo di fare musica ed è cambiato il modo con cui la ascolto e la vivo. L’unica cosa che è rimasta, sempre, è la mia passione per lei.
Se prima passavo interi pomeriggi ad ascoltarmi sempre gli stessi artisti (che non rinnego nemmeno per mezzo secondo e che saltuariamente tornano) oggi lascio in loop le colonne sonore dei giochini mentre svolgo le mie azioni di routine quotidiana. Lascio che vadano e scorrano, a riempire il silenzio di sottofondo che non sono mai riuscito a sopportare. Oramai è un automatismo per me: caffè, sigaretta e cuffie nelle orecchie, con Spotify che pinza dalla mia sempre più lunga playlist di OST dei vari giochini e sceglie cosa farmi ascoltare mentre esco di casa per andare a lavorare.
Shadow of the Colossus, Monster Hunter, Nier:Automata, Final Fantasy. Scegli tu Spoty, davvero. Quello della casa va sempre bene.
Riascoltare le colonne sonore dei giochini è uno dei miei rifugi dal mondo, una delle mie comfort zone per riprendere fiato dalla cazzo di routine nella quale mi sento incastrato e che ogni tot mi soffoca. Qualcosa per respirare, per evadere. E qualcosa anche per rivivere i giochi.
Già tempo fa si parlava di quanto sia difficile avere il tempo per rigiocarsi qualcosa. Ma anche escludendo il fattore puramente temporale in me il brivido della prima volta non è facile da replicare. Certo, magari rigiocando un titolo da capo riesco a cogliere dettagli che mi erano sfuggiti, ma salvo rare eccezioni un titolo lineare, senza scelte da prendere o finali multipli da guardare, non mi dà più le stesse sensazioni del primo giro. Forse è roba mia, forse no.
Con le colonne sonore invece è profondamente diverso. Quelle mi picchiano sempre, come se fosse la prima volta che le ascolto.
E Spotify è stronzo. Ma tanto stronzo. Perchè in un qualche modo sà sempre cosa farmi ascoltare e dove accompagnarmi, cosa farmi rivivere in quel momento. E se non lo voglio cazzi miei, perché bastano due note per portarmi via e lasciarmi chissà dove. Certo, nove volte su dieci è sempre un bel posto.
Ma quell’una su dieci fa male. Tanto male.
Perché in quelle colonne sonore non ci sono solo momenti belli. Ci sono anche cuori infranti, dolori, dispiaceri, a volte persino lutti.
Ogni volta che lo shuffle decide che devo crollare io non posso tirarmi indietro. Inutile togliermi le cuffie, inutile nascondermi, inutile scappare. La canzone l’ho riconosciuta, il gioco pure ed il momento anche. Nitido, fermo, dannatamente ineluttabile.
L’unica cosa che posso fare è fermarmi, ascoltare e lasciarmi andare, perché evidentemente è ciò di cui ho bisogno ogni tanto per resettarmi alle impostazioni di fabbrica, azzerare il timer ed evitare di esplodere.