Ma quindi ‘sto Stray Gods: The Roleplaying Musical è davvero un musical? E cos’è un musical? È fisicamente un musical? E altre frasi del papa nero di Boris buttate li per sembrare colto. Stray Gods non è un musical, o meglio, è più un’opera lirica nella struttura e nell’anima. Il che ha senso, visto che il videogioco è un medium che si presta poco ai cambi continui tra recitato e canto del musical. Proprio per la sua organicità nelle parti, si trova molto meglio quando racconta senza far sentire lo stacco netto, a maggior ragione quando hai più elementi di gameplay che se non coerenti con il racconto rischiano solo di diventare un’accozzaglia di materiale messa lì per far numero.
L’opera lirica ha dalla sua la possibilità di essere organica ma allo stesso tempo solitaria quando dal canto recitato passa alle arie. Le sue ripetizioni, le emozioni che passano più dalle note che da ciò che si dice, le performance a cappella che ci fanno dimenticare la storia e accendono i riflettori sull’attore che sta recitando. Puro gameplay diremmo se avessimo davanti un videogioco. E quindi ecco, con i suoi pregi e i suoi purtroppo tanti difetti, Stray Gods è un buon tentativo di fare un’opera musicale dove tutto è connesso al canto, meccaniche di gioco comprese. Ve ne parlo però nel dettaglio in questa, mi fa strano chiamarla così, “monografia”. Quindi pigiate play e poi venite a rompermi il cazzo sul gruppone Telegram. E visto che sono buono, vi lascio anche con un’aria presa dall’Olimpiade (che è un melodramma, l’antesignano dell’opera lirica, ma se avessi scritto “melodramma” non c’avreste capito un cazzo) di Metastasio che secondo me racchiude molto bene il gioco:
Siam navi all’onde algenti
lasciate in abbandono:
impetuosi venti
i nostri affetti sono:
ogni diletto è scoglio:
tutta la vita è mar.
Ben, qual nocchiero, in noi
veglia ragion; ma poi
pur dall’ondoso orgoglio
si lascia trasportar.