MemoryCard: All Co-Ops Are Bastards
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ACAB: All Co-Ops Are Bastards

Una croce di alabastro compare sullo schermo, esorcizzando all’istante la stanza intorno a sé. Tutti gli occhi sono puntati sul tubo catodico, profondo come le nostre aspettative sulla vita; spesso come il valore dei singoli istanti nel cuore di un ragazzo; obsoleto come il ricordo di una notte passata a ridere, nella monotonia del quotidiano via vai. Le mani si muovono convulsamente, provando e riprovando movimenti che affondano le proprie radici nella memoria muscolare, più che nella parte conscia della mente. Un brusio di ticchettii si alza nella stanza, mentre le dita corrono sui tasti. Tutto funziona: le schiene si incurvano, tese verso il televisore, pronte sui blocchi di partenza.

Quattro schermi, frazioni di un grande intero che racchiude nei suoi sessantaquattro pollici e mezzo le menti di quattro ragazzi, si illuminano. All’istante la frenesia riempie la stanza del suo profumo frizzantino. Volano spallate non regolamentari, parolacce per distrarre, occhiate sugli schermi altrui. Il mondo dello schermo condiviso è un po’ come una partita a calcetto nel campo di sabbia del quartiere. Tutti conoscono le regole, ma il fallo lo chiama solo chi lo subisce, e alzare la mano per fermare la partita è un po’ da codardi. È un gioco sporco, vero, alleggerito della burocrazia dei grandi tornei.

Niente matchmaking che ci fa sentire un po’ meno scarsi, accoppiandoci con giocatori altrettanto scarsi. Niente piazzamenti, classifiche internazionali, geolocalizzazioni per ridurre il ping. Giochi solo con chi ti è capitato a fianco, seduto troppo vicino al tuo cuore per sostituirlo con un altro server. E se ti capitava l’amico che rigorosamente, ad ogni partita, ti apriva il culo… beh, potevi solo trovare un altro gioco in cui tu potessi aprirlo a lui.

Nascono le partite 3 contro 1, per equilibrare le sorti avverse che hanno dato al fortunato di turno una mira troppo veloce, o un’abilità fuori dal normale. Nascono le teste di serie, giocatori che non si possono accoppiare in squadra perché asfalterebbero persino gli sviluppatori. Nascono le leggende: partite di cui si mormora ancora, con risultati che rasentano l’incredibile.

“E quella volta che la granata è caduta ai piedi di quei due della squadra viola, ed uno ha saltato e tu lo hai preso al volo con l’attacco corpo a corpo?” “Ti ricordi quando sulla collina intorno a noi si sono ammassati tutti i cadaveri, e la gente evitava di sparare alle altre squadre per mirare solo a noi?” “Poi quella volta in cui con l’auto abbiamo investito il tipo, che poi lui ha attaccato una granata sul parabrezza, e noi siamo saltati insieme?”

Ricordi veri, vissuti davvero, ma dietro ad uno schermo. Il gioco non separava, non relegava, non ghettizzava. Il gioco era trovarsi a casa del più fortunato, che aveva gestito la paghetta nel modo giusto per potersi comprare l’ultimo Halo, l’ultimo Call of Duty, l’ultimo Fifa. La piazzetta si trasformava nel suo salotto, in cui ci ritrovavamo in ben più dei quattro che potevano stare sullo schermo. Triangolari, tornei ad eliminazione, l’infausto “una vita a testa”. Il cuore dei ragazzi vive delle regole dell’amicizia, e queste regole prendevano forma nei nostri gironi, che di regolamentare non avevano nulla.

Ridatemi la stanza gremita di gente, che guarda la partita come se guardasse i mondiali. Ridatemi le spallate, le occhiate di traverso, le parolacce. Ridatemi i giochi che riunivano, invece di allontanare.

Ridatemi lo schermo condiviso, vi prego.

Ne vuoi ancora? Nessun problema...