“Le note sinistre dello scordato violino della Morte chiamano i morti fuori dalle tombe; e questi, avvolti in bianchi sudari, volteggiano attorno in una danza infernale.”
La nascita è il primo vero trauma. Nasciamo piangendo, senza sapere cosa ci aspetterà fuori. Nasciamo piangendo perché abbiamo bisogno di respirare con i nostri polmoni, senza cordone ombelicale, senza la protezione della madre, senza quel muro che ci ha generati e poi espulsi. L’ironia vuole che nascere significa far partire un timer che segnerà la fine della nostra vita. Ci logoriamo dal primo respiro all’ultimo. C’è chi dice che vivere significa aver vinto su tutti gli altri. Essere il miglior corridore, il più agile a schivare gli agenti ostili che proteggono l’ovulo.
Io vi dico che:
Davanti a noi una strada sconfinata di possibilità. Una tempesta di sabbia a coprire la destinazione. La vita davanti ai nostri occhi sembra un viaggio verso una direzione arbitraria. La vita è solo il ricordo del viaggio che abbiamo già compiuto quando eravamo semplici spermatozoi. Il sesso, l’atto meccanico del piacere è quell’attimo di energia che ci spinge ad andare avanti. La sua ricerca, l’istinto di prolungare la nostra vita lasciando pezzi di noi alla nostra progenie. Il brivido di baciare, assaporare, sentire sulla pelle una seconda vita che combatte disperatamente contro la morte.
Mettere un punto a Dio. Sputargli in faccia e dirgli che sai di dover morire ma non così facilmente. Aspetti, vai e ti fermi. Aspetti, vai e ti fermi prendendo il sesso come una sfida, come un puzzle da risolvere. Lo scambio di sangue, i morsi allo stomaco, gli occhi dellə partner che si chiudono perché in quel momento è in paradiso. Sei in paradiso.
Muori e rinasci e il tuo tempo si ferma. La mente bianca va in buffering e osservi lə tuə compagnə come se fosse l’unica forma di vita rimasta sulla terra. Ti senti cullare da quella luce. L’assenza di desiderio, il bisogno di svanire, l’energia che tende a zero. Il tempo non è fermo. Tu sei in attesa di sfidare di nuovo Dio ma le foglie cadono, l’autunno avanza e poi la primavera, l’estate.
L’azione richiede resistenza, come due mani che si conficcano nel tuo stomaco scavando nelle budella. Resisti. L’azione richiede rottura e rilascio, come un coltello che costantemente scava nel tuo corpo per tenerti in vita. Vivi. L’azione richiede accelerazione e poi lo stop prima del baratro, come se guardando una lunga scalinata verso la luce tu ti fermassi sempre ai piedi, inghiottito dalla versione precedente di te stesso. Accumuli l’energia necessaria alla prossima azione, la conservi, diventa il tuo tumore.
Ingordigia. Ingordigia e bellezza. La superbia di essere vivi perché chi poteva essere noi è morto e chi sarà noi morirà. Frammenti di realtà che con l’entropia diventano il riflesso delle nostre paure. Non vogliamo combattere, qualcuno lo farà per noi. Qualcuno si sacrificherà. E più il tempo passa e più ciò che sarà non è che la desolazione di un momento di follia umana e pigrizia. Un viaggio dalla nascita alla morte di un pianeta dove il dittatore è la narrazione e l’accumulo. Il superfluo sull’agire. Lasciare indietro ciò che per millenni si è conquistato anche se in favore di se stessi, della propria progenie, è impossibile per chi guardando al passato rimpiange chi aveva meno ma raccontava meglio. La dittatura della narrazione anche sulla vita, come nello spettacolo.
La sintesi magica del palcoscenico ridotta a poche parole incise sui muri di una cella. L’agire fa paura, perché agendo si mettono in moto tutti i muscoli del nostro corpo, compresi quelli del sorriso. In una realtà in cui il voyerismo della morte è lo spettacolo più eccitante dopo la nascita di un figlio non tuo, chi agisce decide sugli altri, sporcando di sangue lavabile ciò che c’hanno insegnato essere sacro e immutabile. Una crudeltà in un teatro fatto di parole che vuole riprendere il proprio spazio da chi egoisticamente ha messo al mondo una nuova vita senza prima ripulire il marcio. Infanti di Oppenheimer che finalmente combattono e guardandosi si amano per quello che sono. O almeno ci provano, delirando e piangendo tra ascensori emotivi di carne e ossa e un buco nero dove Narciso vedo riflesso l’aborto.
Il piacere della carne è talmente tanto vicino a Dio che chi lo venera lo rende tabù per paura anche solo di poter vedere il paradiso. La cecità di una religione che pudica innesta nei sogni degli uomini una parata di angosce e paure se si provano a seguire i propri istinti. Regole non scritte ma che diventano reali perché qualcuno dal corpo bianco ha deciso con la forza di limitare la libertà altrui e chi vive da ignavo segue la strada tracciata pur di evitare i morsi dei vermi e dei calabroni. Le donne costrette a esser come l’uomo perché nove volte su dieci il serpente dell’invidia sussurra all’orecchio di chi biologicamente gode di meno, che l’ingiustizia può esser perpetrata solo a sfavore di chi si ritiene più debole e che quindi il frutto della passione spetta di diritto al sovrano con lə clitoride più lunga.
La madre che diventa amante in una mente alveare il cui fine ultimo è la ricerca di quelle forme perdute. Di quell’abbraccio che dopo averti aperto delle ferite nel petto ti porta in braccio fino alla morte. In quel cieco spostamento notturno dove ti addormentavi sul divano e ti risvegliavi sul letto comodo avvolto dalle coperte di seta. L’interconnessione che ti fa credere di poter possedere chiunque tu voglia con il solo utilizzo di una mano, tutto perché potendo vedere ciò che l’altro guarda, credi di poter capire ciò che l’altro senta. Il perfezionamento dell’uomo che passa da un treno in corsa, alla proiezione del viso di tua madre sull’idea di amore e infine alla tristezza che da mille immaginari applausi scroscianti squarcia il velo di Maya e mostra la realtà così per come è:
La morte è l’ultimo vero trauma. Ce ne andiamo via senza piangere. Solo un ultimo respiro che accorcia la circonferenza della vita e abbassa il peso della coscienza. Ce ne andiamo sapendo che il ciclo ricomincerà ancora e che potremo vedere il nostro lascito solo per la durata della vita di chi deciderà che vale la pena ricordarci. E quindi non ci rimane che danzare in questo tempo infinito in cui lo scherno della Morte non fa altro che farla avvicinare a noi con il sorriso.
E quando lei ci guarderà dubbiosa festeggiare e mangiare davanti ad un falò, non sarà il cavallo più veloce e costoso a salvarci dalle grinfie di un destino già scritto. Rimarremo ad osservare quel muro che c’ha espulso chiedendoci se la vita che abbiamo vissuto sia andata oltre quel punto che abbiamo messo con Dio. Non faremo in tempo a rispondere che il tempo sarà già scaduto e a vivere sarà la speranza di chi con un gioco in mano cercherà di scacciare la tristezza divertendosi al fianco della nostra tomba.
“D’improvviso la Morte smette di suonare, e nel silenzio che segue si ode il canto del gallo. I morti si affrettano verso le tombe e la fatale visione svanisce nella luce dell’alba.”