Ah, quando i giochini non erano esperienze audiovisive
con la progressione vincolata dall’interazione…
Millenovecentocinquantotto: dei nerd annoiati in un laboratorio nucleare chiappano un oscilloscopio e creano Tennis for Two. Nascono i videogiochi, i videogiochi quelli veri dove “game” sta per partita e non per gioco. Nessuna velleità di racconto, morale, crescita dei bamboccioni davanti allo schermo. No, giochi e se non ti diverti inculati. Va avanti così finché SEGA non tira fuori Mega Drive nel 1988 e ammazza per sempre i videogiochi quelli veri. O almeno così ci dice Gualtierone Cannarsi sulle pagine di Game Pro.
L’arcade è morto, viva l’arcade. Ce lo ripetiamo dal 2018 – giuro che la smetto con ‘sta cosa delle date, promesso – e un po’ è anche vero. Ormai l’arcade da solo non sta in piedi, non c’è abbastanza interesse e forse abbiam perso quell’attitudine lì. Forse è una delle poche cose legate ai videogiochi che è davvero invecchiata per sempre, senza possibilità di ritornare in auge ciclicamente perché ormai ha detto tutto. Ha sconfitto il loop, è andato definitivamente oltre. E quindi lo dobbiamo ibridare, l’arcade. Quando ci sentiamo particolarmente stronzi dobbiamo addirittura svuotare il significato della parola e riempirlo con un altro concetto, perché ci serve il Diavolo per quell’Acqua Santa che è la simulazione.
Anche Gearshifters in realtà si piega a questa regola. Lo fa in modo sottile, quasi subdolo. Una serpe che ha abbandonato la vecchia pelle e chiede al suo padrone quale deve farsi crescere adesso. Gearshifters flirta a una certa distanza col concetto di roguelike, o meglio, con alcuni dei concetti che stanno dietro l’etichetta roguelike. Puoi scegliere quanto è definitiva la morte, se implica ricominciare la partita da zero, ripartire solo dall’ultima sezione o rigiocare il livello come se avessi messo dentro altre 200 lire. E puoi anche scegliere quanto il procedurale – il culo – possa impattare sulla partita. I nemici hanno tre tipi di drop, ma alcune abilità a ricarica ti permettono di forzarne uno per i 20 secondi successivi all’attivazione.
Se proprio dovessi parlare per generi, ok, direi che è uno shoot ‘em up orizzontale. Al posto della navetta c’hai la macchina ma le logiche son quelle là. Non uno di quelli dove vai in giro con l’autofire consumando il tastino A del controller, perché ogni arma ha una certa soglia superata la quale il rateo di fuoco cala drasticamente finché non si raffredda abbastanza. Uno shoot ‘em up ragionato, poco bullet hell e a suo modo abbastanza tattico, viste le mosse che il veicolo col tempo somatizza e poi può proporre a schermo. Quel nemico lì ha la mitragliatrice solo dietro, quindi se mi metto davanti e sparo in retromarcia vado tranquillo. Questo mi conviene farlo fuori sparando in derapata.
Detta così pare una roba da very giocatory. È anche colpa dell’intro accalappia-nostalgici-che-non-capiscono-il-sarcasmo qui sopra, che ti porta a pensare che Gearshifters sia uno di quei cari vecchi giochini di una volta che erano più difficili e di conseguenza più belli. Mai nessuno che si ricordi che la difficoltà era artificiosa e serviva perché su cartuccia le fetch quest costavano una madonna e già NEO GEO era una macchina da Piersilvio Berlusconi.
Il vero bug al solito è la nostalgia, quella di cui Gearshifters si fa beffe perché basta pigiare start per renderlo accessibile pure ai senza-mani. È un’idea semplice e geniale, quella di permetterti di regolare la percentuale di danno che si subisce dai veicoli nemici. Si può scalare in un senso o nell’altro, dallo 0 al 500% da fottuti kamikaze. Il risultato è che sì, Gearshifters è l’anello di congiunzione tra lo shoot ‘em up e chi di solito si tiene alla larga del genere perché è troppo hardcore. Il tutto prezzato 19.99€, che non sarebbe nemmeno malissimo se la benzina nel serbatoio non finisse scavallata la metà del gioco. Dopo un po’ quello che c’era da dire è stato detto, e anche le nuove tecniche che si sbloccano in realtà sono upgrade delle vecchie.