È un cazzo di aggettivo. È come se lì ci fosse scritto “blu” o qualunque altra cosa. Non ha nessun tipo di senso, non è altro che un retaggio della solita invidia del pene che i giochini hanno (avevano) per il cinema. Solo che i giochini nella passata generazione il complesso l’hanno superato, la critica no, guarda ancora alla Settima Arte come un modello. Sarà che Cannes è più status symbol dell’E3 a Los Angeles, sarà che il Cinema è preso sul serio e i videogiochi no.
È così che la scrittura muore e alla gente passa la voglia di leggere quando esiste YouTube. Standardizzare qualcosa, cristallizzarlo, è il modo più sicuro per ucciderne il bello. E quindi ci siamo inventati un cerimoniale e ci siamo improvvisati Maestri, quando il punto della faccenda è che l’idea di consacrare i videogiochi ci fa una paura fottuta. Perché per farlo dovresti parlare di esperienza, dovresti parlare di te stesso. Ed è fuori dalla tua zona di comfort fatta di paroloni alla “viscerale” e canovacci trama-gameplay-grafica che a me sembrano più che altro dei tavoli operatori dove fare l’autopsia del giochino di turno.
I luoghi comuni nelle recensioni hanno sfasciato il cazzo. Parole vuote perché svuotate del loro significato, esoscheletri di sillabe che messe una in fila all’altra suonano fighe e niente più.