Ci sono delle eccezioni, chiaro, ma se si è dovuti arrivare a retwittare ogni “disponibile ora” di un videogioco per cui si è curata la localizzazione con l’hashtag #TranslatorsInTheCredit perché nei crediti il proprio nome manca è chiaro che c’è un problema.
È molto simile a quello che poi ha portato Warren Robinett a inserire il primo Easter Egg della storia dei giochini nel suo Adventure. Atari non voleva che i suoi talenti firmassero la loro opera per mantere potere contrattuale su di loro e prima o poi fotti con la persona sbagliata.
Viene fuori che tradurre un giochino è tutt’altro che una cosa semplice. Al di là dello sforzo in sé, capitano ancora oggi agenzie che fanno di tutto per renderti la vita impossibile. Tipo impedendoti di sapere il nome delle persone con cui stai lavorando, o non mettendoti in contatto con chi ha localizzato il capitolo 1 quando stai lavorando al capitolo 2. Ma pure i dev che alla domanda “aggiungerete nei crediti i traduttori?” rispondono “se ci avanza tempo” non scherzano per un cazzo. Alla faccia dell’indie.
Ci sono anche un sacco di belle storie o di aneddoti divertenti. Momenti in cui ti scoreggia il cervello e non ti viene in mente la traduzione facile e allora te ne esci con un giro di parole, tipo. In cui viene fuori l’autore e devi prendere delle decisioni che influenzeranno peso il rapporto tra il giocatore e il gioco.
Ma ecco, in tutto questo, lo sapevi che traduttori e traduttrici vengono trattatə a cazzi in faccia esattamente come chiunque altro lavori ad un videogioco?