E non parlo del Papersera o La Gazzetta del Profeta, ma le testate più importanti del Bel Paese. Tra l’altro, sono gli stessi 20 euro che separano me dall’essere auterevole quando parlo di giochini. E occhio che non vuole essere una stoccata ai big della critica videoludica italiana.
Un po’ perché tanto avete da ridire a prescindere e un po’ perché alla fine ci voglio credere che siamo tutti sulla stessa barca.
Vuol dire essere professionali, vuol dire raggiungere lo status symbol. E certo che 20 euro sono meglio di niente, ma pure la Simmenthal è meglio del digiuno (forse). Ma se anziché indignarci dei voti troppo alti o troppo bassi si iniziasse a farlo per le paghe semi-inesistenti, non dico che la musica cambierebbe ma si potrebbe almeno iniziare a cambiare il dj che la mette.
E so pure che fare questo tipo di discorsi mi bolla come quello che rosika, ma se davvero pensate che 20 euro e un gioco gratis siano dignitosi come compenso, perché solo il gioco gratis non è abbastanza? Perché anzi, non è quello che scrivo a stabilire il mio grado di competenza e professionalità?
Ma soprattutto, se pensate che 20 euro siano pochi per scrivere su La Stampa ma congrui per parlare di videogiochi, allora siete voi il cazzo di problema.
Il problema è aver deciso a propri che la presenza o meno di un logo sopra a un articolo sancisca la qualità dello stesso. Che se non si sta sotto quel vessillo blasonato, non valga nemmeno la pena leggere. E non sto nemmeno a farne un discorso di indipendenza, perché indipendenti non lo si è mai e perché da questo lato della barricata c’è tanta immondizia quanto nel dorato mondo dei 20 euro a pezzo.
E in tutto questo, voglio cambiare il mio trend personale e provare a essere ottimista. Pensare che il giornalismo – quello vero e quello dei giochini – possa riprendersi, in qualche modo. Grazie alle nuove realtà che affiorano, grazie ai buoni esempi, sebbene rari, presenti nelle realtà dalle spalle larghe.