S’è parlato un fracco di Black Myth: Wukong, action RPG di Game Science uscito lo scorso agosto, anche per il discorso de “finalmente qualcuno si è opposto al politicamente corretto dettato da Sweet Baby Inc. e ci ha dato un gioco fichissimo”. Ora, di quanto questa affermazione sia una gigantesca stronzata falsa e stra-debunkata ne abbiamo scritto e parlato più e più volte, del giochino ne scrivo adesso. Partendo da che cos’è e cosa soprattutto non è il nuovo Viaggio in Occidente dello scimmiotto.
Le uniche cose prese a piene mani dai titoli From sono il curarsi con una fiaschetta, i checkpoint che si comportano come i falò e la telecamera che ti fa bestemmiare in modo iracondo nei momenti clou, per tutto il resto Black Myth: Wukong è quello che possiamo tranquillamente definire un action RPG generico con progressione a capitoli. L’assenza della corpse run (ossia il lasciare a terra l’esperienza ottenuta e doverla recuperare per non perderla) e la generosità dei vari templi che fungono da punto di respawn rendono pure molto agevole il grinding dei punti esperienza, che possono essere spesi per avanzare nello skill tree del nostro scimmiotto per sbloccare nuovi attacchi, pose di combattimento, bonus ect. Inoltre il respec gratuito di questi permette di esplorare tantissimo l’albero delle abilità, cosicchè lə giocatorə possano variare il proprio stile di gioco in qualsiasi momento (cosa che ancora maledico From per non averla messa in Bloodborne) per superare le numerose boss fight dei capitoli. Come arma avremo solo il bastone della scimmia, che mano a mano potremo evolvere e potenziare e che ci darà bonus vari, anche legati alla posa di combattimento che decideremo di utilizzare. Numerosi invece gli equipaggiamenti e gli spiriti che potremo utilizzare per abbattere mob e boss, con anche la possibilità di trovare degli oggetti unici che ci permetteranno di assumere temporaneamente sembianze e moveset di questi ultimi.
Il gioco si divide in sei capitoli, il primo dei quali tira dritto per dritto con pochi bivi per esplorare e delimitato da muri invisibili che purtroppo non hanno altra definizione se non “orribili”. Per questo specifico capitolo (e anche per un altro a dirla tutta) la definizione calza abbastanza, nel senso che le poche fasi esplorabili sono popolate da qualche mob e qualche segreto, ma per il resto è solo un andare da un boss all’altro per corcarlo di schiaffi. Dal secondo capitolo in poi il gioco cambia un tot, aprendo le aree e dandoci un po’ di libertà di esplorazione in esse. Andare a ficcanasare in giro paga sempre, visto che spesso troveremo oggetti equipaggiabili che semplificheranno non poco le boss fight di fine livello, rendendole parecchio più semplici.
Per chi si fosse persə il discorso anni addietro ci furono dichiarazioni riguardanti la difficoltà del titolo in lavorazione, e sembra che per definirla Game Science avesse usato allegramente le parole “non sarà un titolo per signorine” per definirne il grado di sfida. Ora, tralasciando per un secondo quanto questa affermazione faccia cagare -e sottolineando che si tratta comunque di roba di diversi anni fa, della quale non si ha la certezza assoluta sia stata tradotta in modo perfetto- il grado di sfida del gioco è medio-alto. Non vi è selettore di difficoltà, ma la possibilità di grindare i punti esperienza e l’assenza del “rischio” di perdere i propri progressi tra un giro e l’altro toglie un po’ la sensazione di pericolo. Discorso un attimo differente per quanto rigurada i boss “secondari“, che sono decisamente più impegnativi rispetto a quelli di trama. A margine ma non troppo bisogna dire che il discorso de “non è un gioco per signorine” calza a pennello per quanto riguarda la -e anche la non- rappresentazione della donna nel titolo: nonostante nell’opera letteraria ci siano diverse figure chiave femminili nel gioco ne troveremo decisamente poche, e quasi sempre antagoniste.
La localizzazione è senza dubbio frutto di un lavoro a dir poco mastodontico: il titolo è disponibile in lingua originale e in inglese, con tutti i sottotitoli possibili. E non oso immaginare quanto lə traduttorə si siano spaccatə il culo per tradurre quella mole di dialoghi e adattarli per ogni lingua disponibile, cercando di mantere il senso e a volte pure la musicalità degli stessi partendo dal cinese. Compito svolto in modo a dir poco eccezionale.
Tecnicamente parlando la versione PS5 del titolo a volte ha momenti a dir poco fastidiosi (per non dire che ti fanno salire il crimine). Nonostante gli ambienti siano graficamente splendidi e una gioia per gli occhi da ammirare il titolo impazzisce quando questi iniziano a muoversi troppo. Schizzi d’acqua, la neve che si muove, fiamme ballerine e via discorrendo prendono il frame rate e lo ammazzano di botte, facendo pure crashare il gioco ogni tanto. In particolare una boss fight che si svolge in una piscina di sangue rende il gioco un cancello, riportandoci alla Città Infame di Dark Souls vanilla (effettivamente ‘sto punto di contatto tra i due titoli me l’ero scordato).
A Black Myth: Wukong ho dato una settantina di ore della mia vita, e mentirei se dicessi che non mi sono divertito. Nonostante le rogne tecniche, i muri invisibili brutti in culo e il grinding assurdo per ottenere certi potenziamenti e oggetti unici (trenta cazzo di minuti di tempo IRL per il respawn delle piante per trovare i semi e i potenziamenti delle bevande è senza senso) mi sono divertito a prendere a botte qualunque cosa si mettesse sul mio cammino. Non è il capolavoro della vita, ma i giochi brutti sono altri. E sicuramente se avete letto Viaggio in Occidente ve lo godete di più.