L’Arcade è morto, ma il Cummenda no. Non ancora. Quella che state per leggere è un’improvvisazione jazz a quattro mani con il Boss Finale PhateJoker.
5 sensi che si riducono ad uno schermo CRT 4:3. Raggi catodici che battono contro il fosforo dietro il display, mentre davanti è l’adrenalina a bruciare tutte le altre percezioni. Reazioni chimiche gemelle siamesi, ognuna sente cosa sta succedendo all’altra e si muove di conseguenza. Il valore della Lira si impenna, “un gettone 200 lire” che non valgono solo 200 lire. Il prezzo di un ricordo finito nei nostri hard disk e idealizzato fino a raggiungere la prima posizione della classifica. AAA, prima che significasse giochini da 70 euro. L’ultima partita prima che il luna park itinerante chiuda alla fine dell’estate. Vai a letto e ti aspetti di trovarlo lì l’anno prossimo. Ti svegli e in mano stringi Detroit Become Human.
L’Arcade è morto, e la sua tomba profanata. Ci hanno rubato il significato, ci hanno rubato le parole.
Sull’altare del presunto progresso culturale del medium abbiamo sacrificato l’anima. Il giocatore non vuole più sentirsi giudicato, il punteggio diventa un insulto che insinua una felicità appassita, un ricordo spento. Sei rimasto con una vita nel mezzo di un bullet hell che non lascia superstiti, meglio rinunciare. Quittare. Fanculo, datemi una narrativa, una che riesca a comprendere però, non dei cazzo di pipponi filosofici. Dimenticare è più facile, la leaderboard si svuota come la pista di una discoteca alle 5 del mattino. Sbronzi e fatti, stanchi. Un ritmo insostenibile quello del puro gameplay, del ballo sul pad. Pure se l’ingresso è gratuito. Pure se Resogun te lo regalano al lancio di PS4, come fosse il merdosissimo campioncino omaggio di una rivista di moda. Rinunciare all’arcade è rinunciare a guardarsi allo specchio.
La nostra Jolly Blue cambia invece di chiudere. Per cercare di non chiudere. Sconfitta o vittoria?
Ora del decesso: due vite fa. I gettoni sono finiti da un pezzo, la sala giochi è diventata un locale con cucina fusion. Il gusto acrilico del rimpianto si mescola al manzo donburi. Eppure continui. Non è la scena del ballo de Il Gattopardo, dove i nobili continuano a ballare ribadendo che per le loro vite, fondamentalmente, non cambia un gran cazzo tra l’Unità d’Italia e il caleidoscopio di granducati che c’era prima. No, è il Frankeinstein di Mary Shelley. Abominazioni che cercano di imitare la vita per non rassegnarsi alla morte. A costo di cucire assieme cadaveri, meccaniche avulse aggiunte per distrarre il pubblico. Forse, se non sapessero, se non capissero… Resta solo la scritta Insert Coin, ma l’Arcade è già morto. E preferirebbe l’eutanasia alle stronzate da rpg che ci hanno aggiunto. Accanimento terapeutico oltre la dignità, un padre prigioniero di un polmone artificiale perché non riusciamo a lasciarlo andare verso la luce pulsante di un neon.
Resiste in quarantena, impossibile da debellare definitivamente. Si insinua nei generi che l’hanno soppiantato, vive nella memoria di un talentuoso sviluppatore indie che venderà a pochi spicci ricordi rielaborati, reinterpretati, anche migliori dell’originale. Si è portati a vederlo ovunque, come un caro estinto, nei punteggi di un Forza Horizon che non sarà mai OutRun, prodigio della tecnica che per fingere di avere un’anima deve pungersi con quella siringa infetta. E noi saremo li, a lodarli per questo contentino, mendicanti di gameplay, orfani del bidimensionale con la flebo attaccata al MAME.
L’Arcade in qualche modo è ancora vivo. Intrappolato in un duty cycle di vita e morte, assieme al Boss Finale e il Cummenda SteLynch.