Ho giocato The Stanley Parable e ho scoperto che stava parlando di me.

Già, perché la descrizione che viene fatta di Stanley, appena il gioco comincia, è quella di semplice uomo che lavora, come facciamo tutti, che esegue gli ordini, che schiaccia i tasti del suo computer senza preoccuparsi delle conseguenze, che vive schiavo della monotonia senza rendersene conto.

Sì, perché Stanley esegue gli ordini, lavora ed è felice.

Se ci penso alla fine anche io lavoro, perché la società chiaramente lo impone se si vuole vivere in questo mondo, e siccome non sono il capo dell’azienda della quale faccio parte, ovviamente eseguo gli ordini di qualcuno e a volte questa cosa va in contrasto contro chi mi sento di essere.

Infatti la prima cosa che ho fatto dopo aver sentito la descrizione di Stanley ed aver rivisto me stesso, è stata quella di smettere di ascoltare il narratore. Mi sono riappropriato della mia libertà, seppur videoludicamente parlando, e ho preso in mano le redini del gioco, ho scelto io dove andare, nonostante i pareri contrari o gli insulti del narratore stesso. E devo dirvi la verità è stato liberatorio, anche se ciò ha portato alla morte di Stanley.

Paradossalmente, potremmo definire The Stanley Parable un gioco educativo. Argomento della lezione? La vita.

Le scelte che prendiamo ogni giorno sono frutto di ciò che siamo, anche se capita spesso che tali scelte, per via di alcune circostanze, non rispecchino esattamente ciò che davvero vorremmo. Per paura del giudizio degli altri o per paura di commettere errori. Il risultato il rimpianto.

Per me questo gioco ha significato tanto. Mi ha fatto capire che se davvero voglio essere felice, se davvero voglio vivere bene devo provare ad essere il narratore della mia storia e prendere le decisioni che fanno stare bene me.

Obbiettivo non diventare Stanley.

Questo articolo è frutto dell'iniziativa Crowdsourcing sovversivo di Gameromancer. Che è 'sta cosa?