Dispersa fra le profonde viscere del Cosmo, c’è una strega che sconta una pena millenaria. Segregata fra le mura della sua cella, Fortuna canta una canzone proibita. Un patto sacrificale che si muove su una melodia dimenticata. Le spire della solitudine si allentano, per fare spazio a quelle del demone Abramar, che avvolgono l’asteroide sul quale è arroccato l’appartamento-prigione della fattucchiera. È l’inizio di una nuova relazione, dai contorni difficile da definire. È il rapporto fra due entità sole e disperate ma che si appoggia a un forte squilibrio di potere, anche se non è sempre chiaro chi lo detenga, il vero potere. Il demone e la strega sono al tempo stesso vittima e carnefice, fiamma e falena. Come forse capita in tutte le relazioni che si aggrappano alle infinite ramificazioni dell’amore.
The Cosmic Wheel Sisterhood mi ha riportato alla mia condizione attuale, ad alcune sfumature della stessa, perlomeno. È un racconto che pone varie domande a chi gioca, senza mai dare risposte dirette, senza arrogarsi la presunzione di avere la risposta ai quesiti atavici che mette sul tavolo, insieme ai tarocchi della protagonista. Al tempo stesso prende posizione sul tema della tortura e dei regimi autoritari, lo fa dapprima in maniera sottile e sussurrata e poi sempre più evidente. Ciò che spicca di più è però l’esigenza di ogni personaggio di trovare il proprio ruolo, comprendere il posto che vuole occupare all’interno della società o come ribellarsi alla stessa. È la forsennata ricerca di stabilità in una Realtà che vortica troppo velocemente per essere compresa.
Questo articolo è frutto dell'iniziativa Crowdsourcing sovversivo di Gameromancer. Che è 'sta cosa?