Ho un gigantesco elefante nel mio salotto, e forse scrivendone riesco a capirne la natura e come rapportarmi con lui. Lo vedo spostarsi tra la mia libreria e la mia collezione di titoli da giocare, spesso lo becco a sfogliare tra le pagine dei libri, a ficcanasare nella mia lista “serie che potrebbero piacerti” di Netflix ed ultimamente a farsi i cazzi miei sulla home della mia PlayStation, controllando che giochini ho scaricato di recente.
Non è che non ci avessi mai fatto caso (un cazzo di elefante in una stanza lo vedi eh), ma ultimamente lo trovo più ingombrante e fastidioso. Un vero e proprio rompicoglioni quando ci si mette, perché mette proboscide in tutto quello che vorrei leggere, guardare o giocare facendomi una sola, scomodissima domanda.
Lo ammetto: piangere mi terrorizza. Non so da dove cazzo arrivi questa roba che mi porto dentro da una fracca di tempo e che mi porta a farmi mille problemi prima di premere il pulsante “Play”, so solo che c’è e che devo farci i conti più spesso di quanto non vorrei.
Una lotta continua: quando vado al cinema, quando sono davanti al televisore, quando vedo Chicory installato sulla mia console e mi ricordo della Rece di Fra che ha dato al mio elefante degli ottimi argomenti da accostare alla domanda “Ma non è che ‘sta roba ti fa piangere?” Ed anche se ho imparato a dirgli “fatti quattro cazzi tuoi saltati in padella e lasciami giocare” non sempre ci riesco a cuor leggero. Non è facile scendere a patti con un’adolescenza passata a sentirmi dire che gli ometti non devono piangere, figuriamoci farlo davanti ai giochini.
Eppure davanti a questi mi viene più facile accettare questo compromesso col mio io, forse perché col pad in mano sono da solo e nessuno può vedere la mia parte più fragile prendere il volante.
Da quando ho memoria dei videogiochi nelle mie mani ho affrontato mostri, NPC ed altri giocatori, ma combattere contro me stesso e le angosce che mi porto dentro è sempre un ostacolo terrificante da superare. Forse perché mi tocca guardarmi allo specchio e rendermi conto che, per una volta, non devo scontrarmi contro dei pixel, ma contro qualcosa che vive dentro di me e che mi fa molta, molta più paura.
E forse il mettermi davanti ai giochini è un modo per affrontare la merda dentro che funziona con me, perché diciamola tutta: sono un vigliacco.
Una serie si fa troppo triste? Sbam, via dall’elenco. Nel film il cane rischia di morire? Arrivederci, io me ne vado. “Hachiko”, “Io e Marley”, “Una tomba per le lucciole” e via discorrendo sono titoli banditi da casa mia, perché so perfettamente che non riuscirei a guardarli senza crollare in ginocchio, in lacrime.
Coi giochini invece no, non riesco ad andarmene. Non riesco a darmela a gambe e nemmeno voglio farlo. Forse perché mi sento coinvolto, come quando mentre scalavo la montagna di Celeste mi sono ritrovato a regolare la pressione del pulsante X per far volteggiare la piuma a schermo e, inconsciamente, stavo regolando anche il mio respiro, esattamente come Madeline regolava il suo per superare quel dannato attacco di panico.
Dei film posso essere spettatore fin quando voglio io, ma di un videogioco ne recito una parte. Ed anche se fa un male tremendo portare il ruolo quella parte di me vuole restare fino allo scorrimento dei titoli di coda, perché in un modo o nell’altro c’è anche il suo nome in essi.
Non sono solo mentre sto scrivendo questo papiro, c’è il mio pachidermico amico sul divano che sta sfogliando il catalogo dello Store. E sta prendendo appunti, il merda. “Questo si, questo no, questo secondo me potrebbe andare ma occhio perchè ci sono degli animali e pare pure tragica la cosa.” Ci ho provato a mandarlo a fare in culo, ma senza di me non so che fine farebbe, ed un po’ mi fa pena. Sta con me da anni oramai, questa testa casa sarebbe un po’ vuota se lui dovesse decidere di andarsene domani.