C’è un momento, alla fine di A Space for the Unbound. Non è spoiler, tranquillз. C’è questo momento dove Raya chiede ad Atma se ha raccolto abbastanza tappi (che sono un collezionabile in-game). Lui risponde “non credo che sia così importante”.
Atma ha ragione.
Il punto di A Space for the Unbound non è quanti tappi ho raccolto, ma quante cose ho capito. Su di me. Sugli altri. Sulla vita e su come siamo patologicamente bravi a buttarla via inseguendo quelle stronzate che chiamiamo “convenzioni sociali” e finiscono inevitabilmente per legarci, per togliere spazio a chi vorremmo essere per lasciarlo a chi la società si aspetta che diventiamo.
Fare il sommelier non serve a un gran cazzo. Potrei mettermi qui a pontificare sul design di A Space for the Unbound, togliere punti per ogni errore al voto che t’aspetti ci sia in fondo ad ogni recensione. Sarebbe il flex inutile di una persona che il gioco non l’ha voluto ascoltare. Sì, è un punta e clicca archetipale che si inventa ben poco al di là delle citazioni a Karate Kid e ad Ace Attorney. Sì, spesso e volentieri per risolvere l’enigma che sta nella schermata A devi andare alla schermata B e scoprire che ti serve qualcosa in C e fare la strada a ritroso. Un sacco di volte. Troppe. Lo manderesti a fanculo se non fosse buildato così bene a livello di storytelling e di direzione artistica.
Faresti una cazzata. L’ennesimo errore in una lunga serie di sbagli che ti ha portato a ferire chi ti sta vicino. A non accorgerti della banalità del male seminato mentre eri troppo concentrato sulla tua fantomatica crescita. Delle persone calpestate nella tua corsa verso il successo che t’ha portato ad un lavoro mediocre in una vita mediocre che non collima manco per sbaglio con le aspettative ridicole da sogno americano settate troppo alte. Sei nella media. Non è un dramma. Lo siamo quasi tutti, si chiama media per quello.
Sei una scheda video integrata. Accetta il fatto che non puoi far girare Elden Ring, Elden Ring non è per tutti. Però nel tuo piccolo puoi far girare A Space for the Unbound, con tutto che i connotati del grande videogioco non sembra averceli.
Che ne sa Hidetaka Miyazaki del coraggio che porta una madre a divorziare per cercare di salvare sua figlia. Che ne sa di quanto fa paura mettersi a nudo. Quanto fa schifo chiedere scusa quando sai di doverlo fare e di non esserne capace. Di quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia e ti ritrovi a trent’anni a pensare che stronzз eri da ragazzino senza poter più rimediare. È giusto che ti senta così. Certi peccati si possono espiare solo portando la croce abbastanza a lungo, finché non è chi ti ha subito ad alleggerirne il carico. Il passato non passa davvero mai, non puoi scappare dalle tue versioni precedenti. Però puoi farci i conti.
È l’unico modo per vincere, a questo videogioco tutto sommato del cazzo che chiamiamo vita. Come dice Atma, alla fine non importa davvero quanti tappi sei riuscito a raccogliere. Quante spunte sulla checklist hai messo, con quante donne sei andato a letto e quante volte hai battuto quel record in sala giochi. Conta quante di queste cose hanno avuto un impatto su di te, quanto quelle partite a Future Fighter ti hanno insegnato a combattere IRL quando è il caso di farlo.
Potenzialmente tutto può avere un impatto su di te. Anche un’avventura grafica sviluppata in Indonesia da un team che s’è fatto scammare dal suo vecchio publisher ma in qualche modo sugli scaffali c’è arrivato lo stesso. C’è arrivata pur non inventandosi niente ma tirando fuori l’oro dalla banalità delle sue meccaniche nel capitolo 5. Facendo forza dei suoi punti di forza – sì, la grafichina e la storiella – per fartici arrivare. Pensa se Mojiken si fosse arresa. Ti avrei rotto il cazzo con una rece in meno. E forse per questo sarei una persona leggermente peggiore di quella che sono adesso. Sono comunque uno stronzo, spesso e volentieri cado pure io in quelle trappole di crescita e successo e sogno americano.