I videogiochi ti costringono a rialzarti. Ad essere migliore. Anche se lo sai, non puoi mai davvero scappare dal tuo ieri. Gris è proprio questo, e davvero non so come sia possibile una recensione classica, di quelle trama-gameplay-grafica. Potrei dirti che è un platform 2D dalle meccaniche semplici, quasi un walking simulator privato della profondità. Che ad ogni tastino della pulsantiera frontale del tuo Dualshock 4 corrisponde uno dei poteri della protagonista, e che vanno usati per affrontare i puzzle semoventi dietro lo schermo. Che lo stile ad acquarello è meraviglioso, liquido come la transizione tra una fase e l’altra del lutto.
In una recensione normale proverei ad oggettivare Gris, a usare parole da parruccone ispirate dalle estetiche del gioco. Perché è quello che si fa davanti ad un bel giochino, no? Senti la chiamata e allora fai vedere che il verbo è sceso su di te. Cerchi di essere allo stesso livello dello sviluppatore. La differenza è che lo sviluppatore ti ha aperto l’anima, tu ti stai limitando a dissezionarne l’opera. E per quanti progressi abbia fatto la scienza medica l’anima ancora non abbiamo capito dov’è, cos’è. Sei sicuro, che sia il modo giusto di scrivere una recensione di Gris, di parlare di giochini? A dirla tutta il punto è che del lutto non siamo abituati a parlare. Abbiamo passato sostanzialmente ogni secondo dei millenni trascorsi su questa Terra ad evitarlo.
Abbiamo creato religioni, dei, sistemi di difesa. Pudori che rendono sconveniente parlarne e umorismi che ne parlano mettendolo in ridicolo. Io sono uno di quelli che ai funerali scherza. Anche ai limiti del socialmente accettabile. Ma mi chiedo, è così diverso da un prete che raccomanda l’anima del defunto a Dio, di un credente che trae conforto dal feretro? No, non lo è. Non sei più furbo o più sveglio di chi crede. Non sei migliore. Forse non sei nemmeno peggiore, forse sei uguale. La prima fase è la negazione per tutti e due, no? Lui fugge dalla realtà attaccandosi all’idea di una vita oltre la morte. Tu rifuggi all’idea della morte scherzandosi su. Non è successo niente. È tutto apposto, vedrai che tra poco si rialza pure.
La cosa peggiore è rendersi conto che non si torna indietro. Non c’è il checkpoint, il salvataggio di backup. Che hai perso qualcosa definitivamente, tutto il resto è solo un palliativo. Può essere di conforto, magari lo è. Ma non si torna indietro. Ti diranno che lui vive in te, che gli assomigli, che ti passi le mani in mezzo ai capelli proprio come faceva lei. Sono soltanto echi. E fa schifo. Fai, schifo. Perché ti ci aggrappi, ti riduci a cercarli ben sapendo che è inutile. Faccio schifo anche io che ti sto dicendo che indietro non si torna così, senza tatto o giri di parole. Non è mai stata una mia qualità, purtroppo. Posso solo essere onesto. Soprattutto adesso mentre sto scrivendo queste parole che chissà se leggerai mai.
Succede anche nei videogiochi. Succede anche in Gris. Certo, a volte devi tornare indietro, c’è quel minimo di backtracking tipico dei metroidvania. Però sei diverso, quando torni indietro. Non sei più tu, il tu di prima. Quindi in un certo senso è un andare avanti lo stesso. O forse sono io che sono a pezzi e provo a rimettermi insieme giocando ai giochini, parlando di giochini. Lo faccio sempre. Anche se mi dicono che non si dovrebbe.