Se Sky c’ha Alessandro Borghese beh, noi c’abbiamo Stefano Calzati.
Hai presente il format “4 ristoranti”? Quello dove poi alla fine lo chef che l’anno scorso invitava a lavorare gratis e a fare la gavetta (facile quando sei figlio di Barbara Bouchet, touché) può confermare o ribaltare il risultato? Ecco. La stessa cosa ma coi giochini.
Avrai giocato anche tu qualcosa che è stata fichissima ma poi s’è rovinata con un singolo aspetto del cazzo. Avrai giocato anche tu una merda che però aveva quel quid, quel motivo per cui per qualche motivo non sei riuscitə a staccarti e 80 ore dopo erano titoli di coda. Quel qualcosa è tipicamente un gioco dei Pokémon, se fai Alteri di cognome. Ma tanto ne abbiamo parlato qui su. Pigia play e abbandonati.
In realtà anche la newsletter di oggi parla di come un singolo aspetto possa ribaltare completamente la percezione che hai di un giochino. Anche se questo aspetto è extradiegetico, non fa propriamente parte del linguaggio del gioco ma riguarda i cazzi tuoi. Racconto sempre di quanto The Last Guardian per me non sia solo il terzo videogioco di Ueda, ma sia l’esperienza che per un tiro di dadi stavo giocando poco prima che morisse il mio cane. Ecco, tipo quella roba lì.
Oggi però lascio la parola al figliol prodigo Andrea Scibetta.
Andrea l’anno scorso circa in questo periodo aveva mollato Gameromancer. Per vari motivi che vanno dal fatto che è un principino viziato a quello che lavorare con me è una merda: non lo faccio consciamente, ma finisco per prendere un sacco di spazio e in Gameromancer c’è molto di me, il mio meglio e soprattutto il mio peggio, e se a te quel peggio non piace finisci per rosicare ogni volta che esce un discorso pure interessante che però è incartato con la mia insolenza. Per cui aveva fatto bene ad andarsene. Oggi probabilmente non saremmo più amici se fosse rimasto.
Andrea però sei mesi dopo è voluto rientrare. È l’unico ex che ci saremmo ripresi. E ce lo siam ripreso. Il motivo sta anche in quello che stai per leggere.
Prima però i post e gli spammini.
A questo nuovo anno servono giochi che ci educhino al fallimento.
Di Richard “Amaterasu” Sintoni
Ne abbiamo bisogno, sia come videogiocatorə che come persone, perché oramai viviamo una realtà che esalta le eccellenze senza parlare dei privilegi.
Per fare due numeri il 5% dei 4000 atti estremi consumati all'anno nel nostro paese è rappresentato da studentə, ma nella nostra quotidianità non si parla di loro.
Si parla del venticinquenne laureato con tre anni di anticipo, delle eccellenze dell'Università di salcazzo dove, di trentenni che fanno cose strabilianti in giro per il mondo. E mai di quanto ci si possa sentire sotto una pressione che, a volte, non si è più in grado di sostenere.
Abbiamo i nostri social intasati da gente che fa cose straordinarie tutti i giorni della loro vita, esercitandone un diritto certamente ma allontanandoci dalla nostra esistenza, che ci sembra sempre più vuota se paragonata alla loro.
Ci manca l'educazione alla normalità e alla quotidianità perché questo sistema che vorrebbe alimentare le ambizioni non tiene conto del nostro punto di partenza, ma solo di quello che, per altrə, è di molte più caselle avanti a quello che ci è toccato.
E non tiene conto che in mano abbiamo molti meno dadi rispetto a altre persone.
Se non sei azionista Sony e ti incazzi per le critiche a PlayStation hai qualche problema.
Di Pietro “Phatejoker” Iacullo
Puoi sostituire "Sony" e "PlayStation" dalla frase qui sopra con quello che vuoi, è una regola multipiattaforma e retrocompatibile, funziona pure con SEGA e il fottuto Mega Drive. Funziona addirittura fuori dai giochini, perché la Console War è solo il caso più manifesto di capitalismo interiorizzato, ma Mac vs PC o iPhone contro Android sono la stessa cazzo di cosa.
Ricevi dei dividendi dalle aziende che ti ostini a difendere su Internet? Se la risposta è no, che cazzo le difendi a fare?
Sì ok, Sony ci ha raccontato che siamo tuttə Michael e 4 The Players e un sacco di narrative (messe in scena pure di Cristo) che ci mettono al centro della comunicazione e ci fanno sentire che loro ci tengono, a differenza di quegli altri. Apple ci ha sempre detto di pensare diversamente e invitato ad entrare nella sua elite di gente illuminata che spende un sacco di soldi per prodotti di design. Non è una colpa volerceli spendere. Non è una colpa non volerlo o poterlo fare, come non è una colpa preferire Halo o Super Mario o rompersi i coglioni ad aggiornare i driver pur di giocare su PC.
Ti svelo un segreto: non sei i prodotti che compri.
Sei liberə di comprare Nintendo Switch nonostante l'hardware fosse vecchio già nel 2017, se vuoi giocare la roba di Nintendo. Questo però non ti dà il diritto di venirmi a fracassare il cazzo se ho preferito Horizon Zero Dawn a Zelda Breath of the Wild. Ne possiamo discutere, possiamo pure scannarci perché non ho capito un cazzo del design di Aonuma se ogni volta che mi esplode la spadina in mano a me girano e te invece sborri, ma se il presupposto della discussione è "Sony merda" è tutto tempo perso. Sono aziende, "merda" dovrebbe essere il modo in cui pronunciamo la sigla S.p.A.
Se hai davvero bisogno di litigare sull'Internet per difendere la tua consolina sei unə giocatorə fragile. Forse anche una persona fragile.
E non ho né il tempo né la pazienza di tenerti la manina.
Inizia a togliere la testa dal culo e chiediti che cazzo ha fatto Sony per te. Perché sono quelli che hanno alzato il prezzo della loro console di 50 carte a manco metà del suo ciclo vitale.
E non è che Nintendo/Microsoft/Chi cazzo ti pare sia meglio.
Armored Piezz 'e ROLEX!
Igno mesi fa s’è approfittato dei tuoi soldi per farsi comprare Armored Core 6. Aveva promesso mari e monti a livello di coverage. Ne è venuto fuori questo Rolex, free to listen per tuttə, che in una mezz’ora prova un po’ a raccontare il giochino di From Software dove muori male lo stesso, ma per motivi diversi dall’altro giochino di From Software.
Questi esercizi di critica in delay sono possibili grazie a chi dona su Patreon. Facciamo sicuramente troppo poco rispetto a quanto ci date. Quest’anno proveremo a fare di più. Intanto, grazie.
Mo però pigia play, stronzə.
E tu che fai quando non riesci a risolvere un puzzle?
Di Davide “Celens” Celentano
Quante cazzo di volte mi è successo. Bloccato da venti minuti su ‘sta cazzo di schermata provando e riprovando di tutto. Ma è evidente che no, non le ho provate DAVVERO tutte. Altrimenti quella porta di merda si sarebbe aperta.
Al limite della crisi di nervi, d'identità, di tutto. Il cervello proprio non fa clic, non c'è verso.
E allora che si fa? Per fortuna non c'è pericolo di bloccarsi davvero, ora c'è internet, la soluzione è a dieci secondi e una ricerca su Google di distanza.
Però scusa, è un puzzle game, che senso ha guardare le soluzioni ai puzzle? Il gioco si basa letteralmente su quello.
Però mi sto innervosendo e sento di stare rompendo il ritmo dell'esperienza. Vorrei anche sapere come continua, ‘sta benedetta storia.
Vabbè basta, vaffanculo io ci guardo.
Ah. Era una minchiata.
A Christmas Catherine
di Andrea “Overrided” Scibetta
Quest’anno sotto Natale ero nella classica fase di noia videoludica. Avevo diversi giochi da poter iniziare in realtà, ma ero proprio svogliato. Quasi certamente ne avrei trovato uno sotto l’albero ed ero titubante a cominciare altro, pochi giorni prima. Tuttavia una sera, mentre facevo zapping tra le offerte dello shop di Nintendo, mi è caduto l’occhio su Catherine Full Body in super sconto. C’ho pensato un paio di minuti, ho cercato su internet quanto durasse all’incirca - per capire se più o meno riuscivo a finirlo in pochi giorni - e ho tentennato. In realtà non ce l’avrei mai fatta per tempo, anche se non era lunghissimo, lo sapevo. Però ho pensato a quanto mi incuriosisse da anni, e quante volte avevo rimandato preferendogli altro. E ovviamente l’ho preso. E ovviamente l’ho finito dopo Natale, mentre il gioco che stava sotto l’albero aspettava di essere iniziato.
Catherine racconta la storia di Vincent, un ragazzo di trentadue anni fidanzato da cinque con Katherine. La tranquillità con cui lui vive la sua vita, tra una serata al bar con gli amici e un pranzo intimo con la compagna, la sua voglia di lasciare le cose esattamente come stanno, si contrappongono al desiderio di lei di sposarsi e impegnarsi, portando la loro relazione allo step successivo e mettendo ordine nelle proprie esistenze. Nell’indecisione però subentra un terzo personaggio, Catherine, avvenente e disinibita, che seduce Vincent fino a portarlo a tradire ripetutamente la compagna e mettere in dubbio tutti i capisaldi della propria esistenza. E il tradimento porta con sé una serie di incubi ricorrenti, non solo per Vincent ma per tutti gli uomini della città, in cui bisogna arrampicarsi verso la libertà e fuggire dalle proprie paure, e in cui se si muore, si muore davvero.
In termini pratici, Catherine è un’alternanza tra puzzle game - di notte - e visual novel - di giorno. Come nella maggior parte dei giochi di ATLUS torna il tema dei sogni rivelatori della vera natura delle cose, sogni che influenzano le scelte e i comportamenti delle persone nella vita reale. E anche qui, come in altri giochi dello studio giapponese, sono presenti dei rimandi religiosi e mitologici, e il reale si mescola con allegorie al limite dell’assurdo. Gli uomini che la sera si riuniscono a bere al pub Stray Sheep (pecora smarrita), la notte si ritrovano poi come delle pecorelle smarrite che in gregge cercano di arrampicarsi per fuggire i propri incubi e la morte stessa, ognuno terrorizzato dai tradimenti di cui è colpevole.
Un bel gioco in effetti, che propone degli spunti di riflessione interessanti sulle relazioni di coppia e soprattutto sul cercare la felicità nella propria vita a prescindere dall’avere accanto qualcuno, o da chi si sceglie di avere accanto. Un gioco che mi è piaciuto molto e mi ha posto davanti diversi dilemmi. Però mi chiedo: lo avrei apprezzato altrettanto se l’avessi giocato un anno fa?
Ciò che non vi ho detto, e che cambia radicalmente l’importanza simbolica e l’influenza che questo specifico gioco poteva avere e ha avuto su di me, è che sono appena uscito da una relazione di cinque anni.
Forse è per questo che tra le offerte proprio questo gioco mi ha richiamato in modo particolare. Forse certi giochi semplicemente vanno giocati nel momento giusto, nel momento migliore affinché facciano presa su di noi. In fondo nella vita è tutta questione di tempismo.
Catherine è un gioco giapponese, e probabilmente per questo mostra tutta una serie di personaggi stereotipati, discorsi piuttosto ordinari e risvolti surreali al limite del comico. Penso che giocandoci in un altro momento della mia vita, magari banalmente qualche mese fa, lo avrei apprezzato sì, ma di meno, e sarei probabilmente rimasto deluso dalla piega ultraterrena che prendono gli eventi nel finale. Sicuramente avrei risposto in modo diverso a moltissime delle domande che il gioco pone al giocatore ogni notte, nell’incubo. Avrei risposto in modo diverso agli SMS che Catherine, Katherine e Qatherine mi mandavano, e ne avrei tratto risposte personali diverse.
La Katherine con la K, compagna da cinque anni del protagonista, mi è apparsa adesso come un personaggio evidentemente pensato per risultare pesante, opprimente, quasi fastidioso. Con le sue pressioni sul passare più tempo assieme, sul dovere assumere comportamenti più maturi e sani, sullo smettere di stare sempre al bar con gli amici a bere e altre cose del genere. Chissà se in un altro momento della mia vita ci avrei visto invece un personaggio genuino e affettuoso che pretendeva solo di ricevere le giuste attenzioni. E magari quel Vincent che ora ho visto come incastrato, lo avrei visto come un egoista strafottente.
Catherine invece, che di fatto dà il titolo al gioco ed è a tutti gli effetti una succuba che trae Vincent in tentazione, non penso possa apparire meno provocante e peccaminosa di quanto già mi è apparsa adesso, ma magari in passato il mio giudizio su di lei sarebbe stato più duro. Giocando al gioco oggi ho visto in lei sì una clamorosa tentazione, quasi troppo bella per essere vera, ma al tempo stesso uno schiaffo morale che serviva al protagonista per svegliarsi dal suo accomodante compromesso di vita, che stava per diventare ancora più stringente e priva di sussulti, e che rischiava di diventarlo sempre di più.
Le relazioni sono molto fragili, diceva il Dr Cox in una puntata di Scrubs, in un monologo che per il me quindicenne era illuminante. In realtà ora, che vado per i trenta e di relazioni ne ho viste nascere e morire qualcuna in più, sono convinto che siano ancora più complicate, ovviamente, di come le raccontava il Dr Cox. Non voglio qui mettermi a parlare della mia relazione fallita, del perché sia fallita o di come sto, non è la sede giusta e non sarebbe corretto. Né voglio dire che la mia vita e quella di Vincent sono sovrapponibili al 100% chiaramente, perché la mia Katherine era molto diversa dalla sua e perché non c’è stata nessuna Catherine a portarmi sulla cattiva strada. Ma i modi in cui la storia di questo gioco sembra toccare la mia sono impressionanti, e proprio per questo è riuscito a scuotermi tanto.
Ciò che conta però è che le relazioni sono complicate. “Le relazioni sono assolutamente irrazionali e pazze e assurde, ma continuano perché ognuno di noi ha bisogno di uova”, diceva la fine di un film di un regista che piaceva moltissimo alla mia Katherine. Pensare che stare con qualcuno per cinque anni porti automaticamente a scegliere una vita insieme è un inganno che la società continua a perpetuare. L’importante è non essere da soli. Lo è per mia madre, che sarebbe più tranquilla a sapermi accompagnato, lo è per la maggior parte delle persone che corrono avanti e indietro ogni giorno e nascondono la propria paura atavica della solitudine sotto il tappeto fingendo che non esista e non sia lì dietro a muovere i fili di ogni scelta sociale che fanno.
E invece l’importante è essere felici, fare ciò che è giusto per sé stessi, per i propri interessi, per la propria crescita. E non lo dico io, ma Qatherine con la Q, che rappresenta maldestramente il quarto in questo triangolo amoroso, ma funziona discretamente come personaggio calmante e indicante il nord dell’individuo. Ovviamente sono concetti di una banalità disarmante, tanto che a spiegarli è un personaggio tokenizzato e posticcio aggiunto in una riedizione di un gioco giapponese che funge giusto da pinkwashing finché serve e poi sparisce quasi senza lasciare tracce. A livello pratico però è molto più complesso riuscire a capire che magari è meglio una Catherine solo immaginata piuttosto che una vita in compagnia di una Katherine che non è quella giusta, meglio anche solo la solitudine forse, coltivare i propri sogni, andare sulla luna, se è quello che davvero si vuole. Chi lo sa.
Ecco, giocare a Catherine Full Body quasi per caso esattamente due settimane dopo aver deciso di chiudere una relazione durata cinque anni mi è servito un po’ come una sessione di psicoterapia. Affrontare i miei dubbi e le mie paure in questa versione alternativa, allegorica, surreale e a tratti perfino demenziale della mia vita è stato meditativo e liberatorio. In un mondo di pecore smarrite che cercano di scalare i muri lisci per fuggire da un incubo ricorrente, mi ha fatto sentire un uomo libero, per quanto a tutti gli effetti solo, a tutti gli effetti triste.
E in questo articolo un po’ sconclusionato che di fatto sta fungendo da chiusura della mia seduta dallo psicologo - i miei psicologi (involontari), cioè voi che mi state leggendo - sto cercando di spiegare quanto sia importante il tempismo. In generale, ma in particolare nell’esperire un’opera. A prescindere che si tratti di un videogioco, di un libro, di un film, di quel che vi pare. Catherine Full Body in fondo è un puzzle game piuttosto semplice: spingi i blocchi, formi delle scale, ti arrampichi, vai avanti. Talmente semplice che funziona anche se i livelli sono autogenerati randomicamente e si continua all’infinito (o quasi) come in un vecchio arcade chiamato Super Rapunzel.
Al tempo stesso è anche una visual novel piuttosto semplice, in cui i rapporti si intrattengono quasi da soli, senza che il giocatore debba decidere granché, e le domande che il gioco pone sono chiaramente e volutamente limitanti nel delineare il profilo morale di chi preme i pulsanti. Eppure funziona, il finale che ho ottenuto rappresenta la mia voglia di indipendenza e al tempo stesso quella paura della solitudine che sento dentro di me, e sono convinto che ne avrei ottenuto uno totalmente diverso se ci avessi giocato un anno fa.
Catherine Full Body è stato per me rigenerante e riflessivo, è riuscito a divertirmi, a esasperare le mie paure e le mie visioni negative sulle relazioni di coppia, fin quasi a ridicolizzarle. E lo è stato esattamente adesso come non lo sarebbe stato in un altro momento della mia vita, perché esattamente adesso ero totalmente aperto all’ascolto del suo messaggio. O totalmente vulnerabile, se preferite. Ha evidenziato una volta di più quanto sia importante il tempo, il momento, la condizione di chi gioca, quanto il nostro io influenza il giudizio di ciò a cui giochiamo.
E che in fondo nella vita tutto sta al tempismo, che si tratti di incontrare una persona e innamorarsene o di giocare a un videogioco e restarne folgorato.
Gameromancer è soprattutto questo. Cazzi nostri applicati al videogioco. A volte questo diventa il rapporto con mio padre raccontato attraverso Hades. A volte quella rabbia generazionale — non adolescenziale, come si potrebbe pensare — esplode come denuncia sociale, come tono incazzoso contro chi s’è mangiato tutto quello che c’era a tavola lasciandoci giusto la possibilità di sparecchiare. Per loro, ovviamente.
È lo ying e lo yang, la stronzaggine nell’essere sensibili e l’essere sensibili nella stronzaggine. Sui social viene fuori soprattutto la seconda faccia. Per scoprirci, scoprirci davvero, devi guardare tutto il resto. Devi venire su Telegram, soprattutto.
Ci saranno altre storie come quella di Andrea. Capita, vivendo e avendo questo come unico sfogo, quando l’unico posto dove davvero ci sentiamo nudə è il foglio bianco di Word. Ci saranno anche altri incazzi. La vita vera è fatta anche di quelli. Altrimenti non sarebbe vera.
Io e te ci rileggiamo la settimana prossima.
Lo stesso effetto che ti fece Catherine a me lo fece Actual Sunlight, un titolo che è stato capace di gettarmi nella mia personalissima "depressione"( virgolettata perché chi cazzo ha i soldi per andare da un terapeuta e sparo a cazzo).
Mi ha letteralmente terrorizzato per la vita post liceo: mi ha fatto concretizzare dubbi e incertezze che accompagnano gli anni di incertezza presenti dopo gli studi.
E mi ha messo un'ansia incredibile addosso, col tempo che scorre e con te che rimani sempre lì, disoccupato per una serie di scelte sbagliate, ritrovandoti poi a compiere un gesto estremo perché ti senti un rifiuto.
Tremo ancora a ripensarci.
Forse giocato adesso avrebbe meno impatto? Non lo so.
Mi dispiace che una relazione sia finita André.
Non so mai bene come comportarmi in questi casi ma ti mando un abbraccio.
Ah sì, Catherine è un capolavoro immenso, è uno dei titoli Atlus che amo di più, forse per me è pure più bello di Persona 2.
Bravo Andrea!